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Giorgia Meloni, l'ultima porcheria di Repubblica: "Comandano gli uomini"

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«Meloni, la leader di un partito dove le donne non comandano». Pare uno dei tanti aforismi sgangherati che girano sui social media, amplificati dalle legioni di analfabeti funzionali incapaci di capirne il significato. E invece è il titolo dell'ultimo pezzo di Paolo Berizzi su Repubblica, che ha acceso da tempo un faro su Fratelli d'Italia. E il sottotitolo è ancora più incredibile: «Sogna di essere la prima premier (parla di Giorgia, naturalmente, ndr), ma in FdI vige il maschilismo. Deputate e assessore, ecco chi sono: tra razzismo e saluti romani». Dunque le donne nel primo partito del centrodestra non mancano. È lo stesso Berizzi a farne l'elenco. Ma evidentemente non contano. Come non conta il genere della leader. «È innegabile che essere l'unica donna leader di un partito italiano- il primo, stando ai sondaggi- è un punto di forza della capa di FdI. Ma è altrettanto evidente che dietro l'immagine-primato della donna-forte al comando c'è la contraddizione di guidare un partito da sempre ancorato a posizioni maschiliste». Un partito che «raccoglie e reinterpreta il retaggio di una tradizione che ha sempre imposto e anteposto la figura dell'uomo ("la donna deve obbedire", diceva Mussolini)».

 

 

 

MATRICE IDEOLOGICA Dunque il problema sarebbe questo. Non tanto il peso della rappresentanza femminile a tutti i livelli, nazionale e locale, in Fratelli d'Italia.
Quanto la presunta matrice ideologica che la sinistra e i giornali liberal si ostinano ad appiccicare alle Meloni e ai suoi. In un partito di post fascisti o presunti tali (soprattutto presunti) non conta il sesso. Sei donna, ma conti come un uomo. Parli da donna, da mamma, da moglie? Inutile sprecare fiato. Per i sedicenti cultori del progressismo assomigli troppo a Mussolini. Sei come lui. Il paradosso di questa conventio ad excludendum sessista è che si parla dell'unica leader di un partito dell'Europa centro meridionale che rischi di diventare capo del governo. Per trovarne altre bisogna salire oltre il cinquantacinquesimo parallelo e guardare ai Paesi nordici. Alla Svezia, dove a capo dell'esecutivo c'è la socialdemocratica Magdalena Andersson; all'Islanda, dove a guidare il governo è Katrín Jakobsdóttir e pure alla Finlandia, il cui primo ministro Sanna Marin, ha guidato il Paese nella Nato. Poi ci sono due delle tre repubbliche baltiche: la Lituania con il primo ministro Ingrida Simonyté e l'Estonia con Kaja Kallas.

 

 

 

SALTO STORICO Giorgia Meloni rischia di essere la prima donna a guidare un governo italiano, rompendo un tabù plurisecolare, ma per i benpensanti questo salto storico non vale. Agli occhi di un pezzo consistente della sinistra nostrana Giorgia conta come un uomo. E le sue compagne di partito sono le esponenti di un cripto maschilismo che va stigmatizzato. A qualunque costo. «Amazzoni, pasionarie, donne nere», scrive non a caso Berizzi nell'articolo di Repubblica. Nella carrellata non possono mancare l'assessore al Lavoro del Veneto Elena Donazzan ribattezzata per l'occasione «faccetta nera», la deputata Paola Frassinetti, «un passato nel Fronte della Gioventù», puntualizza Berizzi, come se l'appartenenza alla formazione giovanile del Movimento sociale italiano sia di per sé una colpa grave. E ancora Gianfranca Tesauro, assessore a Cologno Monzese, rea di aver indossato in piena pandemia una mascherina con la scritta «Boia chi molla». E come dimenticare la deputata Augusta Montaruli che «come Meloni viene da Azione Giovani» e «in curriculum ha gite a Predappio». In pratica: dimmi dove vai e ti dirò chi sei. Per finire una citazione della saggista Alessandra Kersevan, accusata di riduzionismo sulle foibe, che accomuna Giorgia a due donne di Stato, Margaret Thatcher e Condoleza Rice, «donne che hanno governato e non lo hanno fatto meglio degli uomini», dice. Ma anche in questo caso viene il sospetto che la bocciatura dipenda dal loro non essere liberal. Che a sinistra è una colpa.

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