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Carlo Calenda, tutti quelli con cui ha litigato: ecco chi è mister Azione

Alessandro Giuli
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Dove c'è Carlo Calenda, non c'è casa. O meglio: la casa è lui, nel senso che la occupa tutta intera e guai a chi provi a cercarvi un rifugio anche per sé. Deve averlo capito, come sempre in ritardo, pure Enrico Letta il quale non ha fatto in tempo a firmare con lui un accordo elettorale in chiave anti destre che si è subito visto scippare il palco e il cono di luce, ma soprattutto le condizioni per fare parte della litigiosissima Unione 2.0 messa su in fretta e furia dalla sinistra in odor di sconfitta. È successo infatti che non soltanto il leader di Azione ha strappato vantaggi tecnicamente faraonici per l'apparentamento con il Pd - 30 per cento dei collegi più una sostanziale esclusione dalla quota uninominale per quelli che gli stanno antipatici in quanto complici della caduta di Mario Draghi - e non soltanto ha ottenuto appunto che il centrosinistra debba ripartire dall'Agenda Draghi (che non c'è, ma vabbè); no, c'è di più.

 

Ieri il leader di Azione ha bombardato da par suo la trattativa tra Letta e i così detti rossoverdi di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli. Ecco le sue parole, fatte di "piuma" e di "fero" come la nota cinquina del verdoniano Mario Brega: «Abbiamo fatto una scelta di responsabilità molto sofferta ma a condizioni nette. Non siamo disponibili a rivedere nessun punto di quanto sottoscritto. Ogni giorno vediamo aggiungere alla coalizione un partito zattera e iniziative incoerenti con quanto definito.
Anche basta». Anche basta?

ATTORE PROTAGONISTA
«Della sorte di Di Maio, D'Incà, Di Stefano e compagnia non ce ne importa nulla. Al contrario, prima tornano alle loro professioni precedenti meglio è per il Paese. E per quanto concerne l'Agenda o è quella di Draghi o quella dei no a tutto. Chiudiamo questa storia ora». Chiudiamo? Ora? «C'è un'ambivalenza che tormenta la sinistra dalla sua origine: riformismo o massimalismo. Una scelta mai compiuta fino in fondo che ha determinato contraddizioni e sconfitte. L'accordo sottoscritto dal Partito democratico è una scelta. Può essere cancellata ma non annacquata. Decidete».

Boom! Con non poche ma sentitissime battute, Calenda ha mandato ai pazzi il Pd ponendo un veto feroce - in sostanza: o me o tutti gli altri - e ha processato in contumacia, condannandola, la leadership dem che gli aveva appena srotolato tappeti rossi e restituito le chiavi della casa nella quale Calenda medesimo abitava prima della nota scissione (agosto 2019) verso Emma Bonino e +Europa.

Risultato: rossoverdi infuriati - «Calenda lavora per la destra» - e Letta ridotto al rango di una figura a metà tra ilnotaro alle prime armi e l'usciere fa la guardia alle porte girevoli del suo campo matto. Sublime, al riguardo, l'appello lancinante di Dario Franceschini: «Calenda e Fratoianni, fermatevi!». La verità è che Calenda non lo ferma nessuno. Non conosce altra Agenda che non sia l'Agenda Calenda e i suoi ingenui interlocutori stanno facendo di tutto per offrirgli il ruolo che vuole ritagliarsi. È chiaro che il front man della situazione adesso è lui, l'attore protagonista di un melodramma che rischia di concludersi in farsa. Ma sempre con l'ex ministro dello Sviluppo in posizione "win win", come dicono quelli che se ne intendono. 

 

Perché il piano originario e ambiziosissimo di Calenda era quello di denudare i limiti di una sinistra ipocrita e confusa (ci vuole poco) creando intorno a sé un terzo polo (con Matteo Renzi al seguito ma in stato di subalternità, certo non nel listone comune che l'ex premier aveva proposto per far trainare la sua Italia Viva) per ottenere infine un risultato elementare: piazzare in Parlamento una minoranza di bloc co tale da impedire sia alla destra-centro data per vincente sia alla sinistra e ai grillini di governare l'Italia. Dal che non è difficile arguire che il traguardo sia il ritorno dell'identico, vale a dire un esecutivo tecnico sorretto dai soliti portatori d'acqua al servizio dei "competenti". E allo ra il patto con il Pd? Un piano B! Nulla più d'uno zatterone sopra il quale fare i numeri a colori, gettando a mare gli in desiderati, e dal quale all'occorrenza Calenda potrebbe scendere all'ultimo istante utile per tornare al piano A, correndo tutt' al più il rischio di figurare come un tipaccio che fa valere la propria visione a suon di schiaffoni. 

MORTI CHE BUSSANO
È verosimile che il butta fuori di Azione si stia sopravvalutando? Lui è sicuro di portare a casa un dovizioso bottino elettorale, persino più pingue se dovesse correre da solo a spese dei moderati di centrodestra. Chissà. L'impressione è che il suo furor bellicuslo renda più adatto alla solitudine che alla coabitazione; e che nel suo caso le idee coltivate e il temperamento che se ne fa interprete tendano a divergere fino all'iperbole. Qui giunti, per tirare le somme, ci soccorre la saggezza popolare secondo la quale un tempo era preferibile un morto in casa che un esattore all'uscio. Il Pd si ritrova nella tragicomica circostanza opposta: ha un Calenda in casa ed è pieno di morti che bussano alla sua fra gile porta.

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