Mario Draghi, "non è il suo karma": indiscrezioni, come ha liquidato Letta e Di Maio
Enrico Letta garantisce: «Continueremo con il programma di Draghi». Luigi Di Maio concorda: «L'agenda Draghi non può cadere nella polvere. La raccoglieremo». Matteo Renzi giura: «Faremo di tutto perché l'area politica che ha sostenuto Draghi sia unita». Giovanni Toti constata: «L'agenda Draghi è inevitabile per il Paese». In questo modo, loro e tanti altri puntano ad incassare i voti degli italiani infuriati per il "Draghicidio", e così tutto pare convergere verso la realizzazione della profezia di Vittorio Sgarbi: le elezioni del 25 settembre saranno all'insegna del «nuovo bipolarismo: Meloni contro Draghi». C'è un solo problema: la grande risorsa dei draghiani, che ovviamente è Mario Draghi, è anche il loro punto debole. Perché - per cominciare - il premier non ha alcuna intenzione di metterci la faccia e candidarsi. E già questo potrebbe bastare, se è vero ciò che il sondaggista Antonio Noto ha detto ieri all'agenzia LaPresse (e che alcuni dei diretti interessati ammettono in privato): «L'area Draghi non esiste in termini di formazione del consenso. Draghi può essere un valore aggiunto solamente se lui decidesse di scendere in campo. Allora sì che si rimescolerebbero le carte e tutto diventerebbe possibile». In caso contrario, «è difficile che la stessa area possa avere grande successo».
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ESEMPI SCORAGGIANTI
Draghi, però, non è Mario Monti né Lamberto Dini, e il loro esempio certo non lo incoraggia: risultati elettorali deludenti, mai tornati a palazzo Chigi e tantomeno approdati al Quirinale, unici traguardi che potrebbero far proseguire in modo degno la già scintillante carriera dell'ex presidente della Bce. Questo ha costretto i draghiani a ridimensionare subito la loro narrazione: non allestiranno il partito o l'area «di Draghi», definizione che farebbe di loro dei taroccatori di marchi, ma il partito o l'area «dell'agenda Draghi». Che non è proprio la stessa cosa, anche come immediatezza ed efficacia del messaggio che arriva agli elettori. Rafforzato appena un po' dalla promessa, al momento molto temeraria, di far guidare a lui anche l'esecutivo che nascerà dopo le elezioni. «Lo sappiamo, non ci saranno endorsement aperti da parte di Draghi», riconosce uno dei leader centristi impegnati nell'operazione. «Quello che Draghi potrà concedere, al massimo, è una sorta di silenzio complice. Far trasparire che, se questa cosa si fa, tutto sommato a L lui non dispiace».
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Ma pure questo, oggi, va oltre la volontà di Draghi. E non perché l'uomo sia insensibile alle lusinghe. I suoi, per dire, raccontano che ha apprezzato molto l'articolo elogiativo che gli ha dedicato il settimanale inglese The Economist dopo le dimissioni, in cui si racconta di come all'inizio Draghi fosse «riuscito a far emergere il meglio dei politici italiani, entusiasmando molti con il senso del dovere, la disponibilità al compromesso e la convinzione nella necessità dell'unità nazionale», per poi cadere vittima, alla fine, «della riaffermazione del loro lato peggiore». Sono le lusinghe di questi politici che non gli interessano. Ancora ieri sera, a palazzo Chigi, chi gli ha parlato assicurava che «Draghi si terrà alla larga da qualunque ambizione elettorale, non solo propria, ma anche altrui. Non è nel suo karma».
Lo ha intuito pure Letta, tra i primi a chiedere pubblicamente i voti delle categorie che nei giorni precedenti la crisi di governo avevano manifestato e lanciato appelli in favore di Draghi. Dentro il Pd ammettono che in quella mossa del segretario non c'è stato nulla di concertato col premier: «Lo ha fatto senza chiederglielo», sapendo quale risposta avrebbe avuto se avesse presentato domanda esplicita. L'«agenda Draghi», al momento, è quindi una bandiera che chiunque può prendere e sventolare. Tanto che non si esclude che a farlo siano più liste in competizione tra loro. È ciò che accadrà, ad esempio, se Carlo Calenda (che ieri ha imbarcato il senatore ex forzista Andrea Cangini, un altro draghiano) è sincero quando dice di non avere «alcuna intenzione di entrare in cartelli elettorali che vanno dall'estrema sinistra a Di Maio», dunque di allearsi col Pd, perché «l'agenda Draghi e l'agenda Landini/Verdi non stanno insieme. Sono prese in giro degli elettori». Ci sono già tutti i presupposti per prevedibilissimi scambi di accuse tra figli non riconosciuti dello stesso leader, che però leader non è, e per discussioni del tipo «il mio programma è draghiano, il tuo no», che avrebbero l'unico risultato di spianare ulteriormente la strada al centrodestra.
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L'INEVITABILE DOMANDA
Eppure il «silenzio complice» del presunto genitore non potrà durare a lungo. Prima del voto, magari il 24 agosto, al Meeting ciellino di Rimini, qualcuno a Draghi lo chiederà in pubblico: sono figli suoi, quelli che si proclamano tali? Si riconosce nei loro programmi come loro dicono di riconoscersi nel suo? Difficilmente potrà dire di sì, perché equivarrebbe a schierarsi e lui, come visto, non ha alcuna intenzione di farlo e vuole tenersi alla larga da tutti. Ma se tacesse o dicesse di no, oppure desse una risposta fredda o tagliente, come è nello stile del personaggio, azzererebbe le speranze di molti - anche suoi ministri - che lo hanno sostenuto sino all'ultimo e vorrebbero portare avanti l'opera di questo governo. Non sarà facile per lui rispondere, quel giorno, anche perché le sue parole potrebbero pesare molto sull'esito delle elezioni.