Alessandro Di Battista, chiacchiere a salve: col "bla-bla" pacifista disarma solo se stesso
Ora è un Messia in aspettativa. Ora un polemista, che scrive più libri di quanti ne legga. Ora un terzomondista a carico della Lonely Planet e del Fatto Quotidiano. C'è qualcosa di ipnotico, perfino fascinoso nei mille volti e nelle tempestive apparizioni televisive dell'Alessandro Di Battista.
L'ultima - diventata subito virale - a DiMartedì da Floris, l'ha visto contrapporsi ad Alessandro Sallusti, il quale gli faceva sommessamente notare una qual certa incoerenza nel condannare le "liste di proscrizione" dei putiniani d'Italia; quando i primi a stilare elenchi di pubblica condanna per i cronisti scomodi erano stati proprio i grillini fomentati dal Dibba (e Sallusti era, orgogliosamente, sempre nei primi dieci "pennivendoli"). Dibba, come spesso gli accade non percepisce il suono delle proprie contraddizioni.
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PRESO DAL FLUSSO
Ecché si lascia cullare dal vento del logos, dal flusso dei suoi discorsi, anche se talora - come nel caso di «Sto con l'Isis, vanno capiti», o «Putin va capito» - sono stronzate potentissime che lui tende sempre a giustificare come «estratte da un complicato contesto». Invece, nella parabola del Dibba, il contesto è tutt' altro che complicato.
Dibba è «armiamoci e partite». Dettala linea della Rivoluzione ma poi lascia andare avanti gli altri mentre lui si ferma in un bar di Caracas, in un villaggio della Colombia, tra i guerriglieri del Chapas; e lì, di solito, approfitta per farne un documentario da vendere al Fatto a 20mila euro a botta.
Credo che da un suo libro, una retoricissima Lettera al figlio sul coraggio, emerga una frase emblematica: «L'onestà è un prerequisito ma quel che più conta (e che più manca) è il coraggio. Il coraggio di schierarsi, non di posizionarsi. I politici si posizionano in base alle loro convenienze (tutti a parlare di alleanze) ma non si schierano più, per lo meno non lo fanno dalla parte dei più deboli. Chi si schiera perde qualcosa ma è l'unico modo per difendere gli invisibili». Ecco, il vero problema del Dibba - che più che difendere gli invisibili difende la propria visibilità - è la tendenza a schierarsi solo a parole.
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ipotesi di "maggioranza Ursula"; ha massacrato l'alleanza col Pd dando a Conte & C. dei «sudditi più o meno inconsapevoli del Draghistan»; ha chiamato l'esorcista solo all'idea di un governo con Berlusconi (salvo poi pubblicare libri con le case editrici berlusconiane); s' è speso per sostenere la Raggi, «abbiamo perso una grande sindaca, ha avuto il coraggio di opporsi ai poteri forti»; ha criticato il becero sfruttamento dei lavoratori, pure se il suo stesso padre stipendiava un dipendente in nero.
Eppure, mai una volta che abbia preso il coraggio di dar seguito alle proprie denunce. Dibba è quello che ha preferito fare il giro del mondo con la famiglia piuttosto che ricandidarsi al secondo giro d'elezioni; quello che adora lavorare il legno e fare il cameriere nel ristorante del cognato; quello che accompagna Di Maio a Bruxelles per sputtanarsi nella protesta dei gilet gialli mentre quelli mettono a ferro e fuoco le città; quello che, nel (molto) tempo libero annuncia «mirabolanti ricette in materia di sovranità finanziaria, alimentare, energetica» che, se applicate alla lettera, trasformerebbero il mondo conosciuto nel Pianeta delle scimmie.
NON È GRAMSCI
Dibba è uno in grado di citare Gramsci, ma evidentemente, di Gramsci ignora la frase «Odio gli indifferenti. Vivere significa partecipare». Ecco, anche oggi che il rimasuglio dei sognatori dei Movimento Cinque Stelle gli chiede di scendere in campo e di usare il lanciafiamme, be', Dibba se sta fermo dietro la telecamera. E urla agli altri di «non avere le palle», e lì proietta freudianemente la propria inadeguatezza. Vincenzo De Luca la spiega facile «Di Battista si è trovato in un ruolo nazionale senza saper fare la O col bicchiere». Probabile. Ma Dibba, oggi è soprattutto quel verso di De André: «Si costerna, s' indigna, s' impegna poi getta la spugna con gran dignità...».