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Salvini e Meloni, il patto tra Lega e FdI resiste solo in Veneto: ecco perché

Francesco Specchia
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In quel campo largo minaccioso di trasformarsi in campo di Agramante che oggi è la coalizione di centrodestra alle amministrative, il Veneto, come al solito, resta il laboratorio -se non delle alleanze fiammeggianti- dei buoni propositi. Matteo Salvini e Giorgia Meloni, in ogni città al voto si abbracciano tra sorrisi striminziti col fastidioso sentore di un coltello tra le scapole, tranne che a Padova e a Verona. Laddove i due hanno stretto un patto d'acciaio inscalfibile per i candidati sindaci di entrambi. A Verona, la Lega assicura l'appoggio cieco pronto e assoluto all'uscente Federico Sboarina; il quale fronteggia non solo il polo di sinistra che fa capo a Damiano Tommasi, ma anche il ritorno alla Dumas di Flavio Tosi curiosamente appoggiato da Forza Italia (che, però, voterebbe Sboarina al ballottaggio). A Padova, in una solida simmetria, Fratelli d'Italia sosterrà Francesco Peghin, giusto l'altro giorno bersaglio del pugno volante di un passante; e proprio mentre discuteva sul fatto di mettere in sicurezza la città assediata da un'innaturale escalation di violenza. Non è un caso che Salvini abbia salomonicamente preso a braccetto prima Sboarina in piazza Bra' e, in rapida successione, Peghin all'ombra della Basilica del Santo.

 

 

 

«Abbiamo il dovere di presentarci Ii uniti: stiamo lavorando per riannodare i fili a Verona e Palermo», dichiarava il leader leghista. E su Verona pareva sincero (su Palermo, meno). Interessante il caso di Padova, dove la compattezza del centrodestra ha un fulcro proprio nel candidato primo cittadino. Peghin, classe 64, è persona dabbene, ex velista, imprenditore e già presidente di Confindustria e vicepresidente del Padova calcio; ha una figlia e una moglie apprezzata giornalista dall'ineffabile strategia comunicativa; ed è visto come un maverick. Dopo la caduta della giunta leghista Bitonci ad opera di una frangia di Forza Italia, Peghin aveva rifiutato la candidatura. Solo con la benedizione dei segretari locali di Fratelli d'Italia, Forza Italia e Lega - ossia dello stesso Bitonci - l'imprenditore s' è convinto ad accettare una sfida che odorava di martirio. Padova è una città tradizionalmente virata a sinistra. Qui, a parte le parentesi di Giustina Destro e Bitonci, la politica vive ancora nel riverbero del dominio storico del Pd Zanonato, prima sindaco e poi ministro.

 

 

 

E qui domina, in una città che è inesorabilmente slittata verso il basso al 33° posto nelle classifiche di qualità delle vita e che è salita verso l'alto, al primo posto, nei reati di droga, Sergio Giordani. Ossia il sindaco Dem che Enrico Letta ha pubblicamente indicato come il prossimo liquidatore di Zaia. Giordani si è legato ai rimasugli del M5S, a parte della sinistra radicale e a tre -quattro liste civiche; ha consolidato una politica di sostanziale bradisismo; ha creato un po' di casini con le categorie produttive; ed è scivolato su qualche gaffe tipo quella di giustificare l'aumento della criminalità come un modo per tenere impegnata la polizia. Peghin, con la sua idea di stimolo al turismo e all'industria, e di messa in sicurezza della città e delle famiglie colpite dalla crisi, recupera ogni giorno una preferenza. Sondaggiufficiali li danno a distacco minimo: Giordani 49% Peghin 47%. Con una Forza Italia di taratura rionale, la conferma dell'uscente a Verona e l'ascesa di un rispettabile civico di centrodestra alieno della politica a Padova dipenderà, per molti versi, solo dall'accordo fra Matteo e Giorgia. Nessuno di due, qui, potrà fare scherzi. A meno di uno slancio sadomasochista (ma non credo...). 

 

 

 

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