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Mario Draghi, "se cade il governo, io vivrò meglio": resa in Aula?

Fausto Carioti
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Mario Draghi non fa in tempo a tappare una falla nello scafo della maggioranza che subito se ne aprono altre. «Personalmente, se il governo cade, vivo anche meglio», ripete ai suoi interlocutori, pure in queste ore. Ma c'è modo e modo di terminare l'avventura a palazzo Chigi, e tra finire impallinato in aula e uscirne a testa alta con la missione compiuta e lo status di generale vittorioso, non ci sono dubbi su quale preferisca. Resta il fatto che ogni giorno ha la sua croce. Ieri, raggiunta una mezza intesa sulla messa a gara delle concessioni balneari, è rispuntata la mina del voto sull'Ucraina. I senatori del M5S hanno provato a far venire in aula il premier domani, prima della riunione straordinaria del consiglio Ue del 30 maggio, dove si discuterà proprio di come aiutare Kiev nel conflitto con Mosca. Sarebbe stata l'occasione che aspettano da settimane per smarcarsi da lui e mettere ai voti una mozione contro l'invio di altre armi. Fdi e le piccole sigle di sinistra si sono unite alla proposta, ma il resto della maggioranza ha tenuto e la richiesta è stata respinta.

 

 


Non che cambi molto: il passaggio di Draghi in aula, con voto sull'Ucraina a seguire, ci sarà comunque. «Intorno al 20 giugno, è già stato concordato», assicurano dal Pd. Cioè prima del successivo consiglio europeo, in programma i giorni 23 e 24. E a quel punto non si vede come Draghi possa evitare che nella discussione e nella votazione non entri il prossimo carico di armi da inviare all'Ucraina, il tema che rischia davvero di fare davvero saltare l'esecutivo. «Conte è pronto a tutto, anche a uscire dal governo portandosi via solo un pezzo del movimento», commenta preoccupato un senatore del Pd. Anche Lega e Forza Italia faticano a riconoscersi nella linea del premier. La lingua che parla Matteo Salvini non è molto diversa da quella di Giuseppe Conte. «Continuare a mandare armi è un errore madornale che allarga il conflitto», ha ribadito ieri il capo del Carroccio, augurandosi che sulla questione «non ci sia nessun altro voto in parlamento nelle prossime settimane». Il testo sottinteso (ma mica tanto) è che la Lega potrebbe votare contro. Sviluppi che Draghi ha messo in conto, e ha già fatto sapere che non lo condizioneranno. Agli esponenti della maggioranza più vicini alla sua causa ripete un discorso dai toni ultimativi, affinché lo riportino agli altri: «Io sono qui per fare delle cose. Se non si fanno, non c'è ragione per cui io debba stare qui». Ricorda che su temi che non ritiene essenziali per la missione del governo, come la riforma della giustizia, lui non ha disdegnato compromessi con i partiti. «Su tre cose, però», scandisce, «non transigo: la concorrenza, la delega fiscale e la linea di politica estera. Vogliono impedire al governo di andare avanti su questi temi? Mettano qualcun altro al posto mio».

 

 


Sulla concorrenza, il nervo scoperto sono le concessioni balneari: se l'intesa regge, il 30 maggio un testo condiviso da tutta la maggioranza sarà approvato in Senato. Sul fisco, il tema più combattuto è il catasto: si è trovato un accordo, ma l'intervento della Ue, che caldeggia l'intervento per aumentare il gettito, ha complicato le cose, e ora il governo vuole congelare il provvedimento, facendolo esaminare quando sarà risolta la pratica del "decreto Aiuti" (quello che dà il via libera all'inceneritore romano e su cui Conte intende inscenare un'altra battaglia). Ma gli elettori di qualunque partito difficilmente capirebbero una rottura su un tema diverso dalla guerra. Chi ne ha parlato col premier fa una previsione: «Su questo Draghi arriverà alla prova di forza e minaccerà chi gli si frappone di avere pronta un'altra maggioranza con cui portare avanti la propria linea. È anche il modo migliore per far restare Conte e gli altri nel governo. Perché se il M5S, la Lega o Forza Italia si spaccassero, i veri sconfitti sarebbero i loro leader, non Draghi». 

 

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