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Conservatori italiani, un nuovo partito per colmare il vuoto: per la Meloni i tempi sono maturi

Francesco Carella
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Fra le tante anomalie nella storia italiana ve n'è una che continua a condizionare più di altre il nostro sistema politico: la mancata formazione di un vero partito conservatore. Per comprendere meglio le ragioni di una tale particolarità vale la pena di affidarsi alla lucida analisi fatta nel 1882 da Ruggiero Bonghi sui caratteri primordiali dell'Unità d'Italia. Egli scrive che «il partito moderato e liberale non ha potuto e talora non ha voluto essere un partito conservatore. Esso ha avuto un fine solo: quello di costituire l'Italia (...). Dove di proposito, dove per necessità, ha trascurato tutto quello il cui rispetto è la forza di un partito conservatore». Un certificato di nascita di tale fattura ha influito non poco sugli sviluppi politici successivi al punto che la destra nelle sue diverse espressioni in oltre un secolo e mezzo di storia non ha mai messo in cantiere la costruzione di un'egemonia conservatrice secondo i canoni classici delle democrazie occidentali.

 

 

 

Ora si tratta di capire, alla luce di quanto emerso dalla conferenza di FdI, se siano maturi i tempi affinché una tale formazione politica possa finalmente prendere forma. Vi è però una certezza: la nascita di un partito conservatore non può che avvenire attraverso l'affermazione di alcuni princìpi cardine della dottrina liberale già lanciati nel 1994 e inspiegabilmente lasciati cadere negli anni successivi. Si tratta di costruire prima che un partito, un'egemonia culturale nella società civile in grado di smentire, una dopo l'altra, le falsità diffuse dall'establishment della sinistra intorno al pensiero liberal-conservatore.

 

 

 

EGEMONIA CULTURALE

All'accusa di degenerazione sovranista non si potrà che replicare con Benjamin Constant che «là dovevi è uno Stato non può che esserci sovranità e che essa trova la giusta espressione nella centralità della legge e dello Stato costituzionale». A coloro che lanciano frecce acuminate in direzione del mercato, vale la pena di rispondere con le parole di Don Luigi Sturzo quando osserva che «la democrazia vera non è statalista. Abbiamo in Italia una triste eredità che è diventata catena al piede della nostra economia, lo statalismo sciupone assediato da parassiti furbi». Dal che discende la necessità di promuovere in ogni ambito la competizione che non è, come si vuole far credere, la causa della disattenzione nei confronti di chi si trova nella condizione del bisogno. Infatti, nel pensiero liberale occupa una posizione centrale il principio di solidarietà, come spiega Ludwig von Mises in L'azione umana, e come ricorda anche Papa Leone XIII, quando scrive che «se qualche famiglia si trova in una situazione disperata e da se stessa non le sia possibile uscirne è giusto l'intervento dei pubblici poteri. Lo Stato è in funzione delle persone e della famiglia e non viceversa». «Può davvero esistere in Italia qualcosa di simile?», si chiedeva il direttore Alessandro Sallusti nel suo editoriale di sabato scorso. Se così sarà ne trarrà vantaggio l'intera vita democratica del Paese anche perché - come sostenuto dallo storico Gaetano Arfè - «l'assenza di un vero partito conservatore ha avuto come conseguenza la mancata formazione di una sinistra riformatrice». Una "originalità" tutta italiana che ha impedito finora di esprimere governi solidi, alternativi e riconosciuti legittimi dall'avversario. 

 

 

 

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