Enrico Letta in piazza prende in giro l'Ucraina: "Siamo la stessa cosa". Ma poi... che figuraccia
«Siamo la stessa cosa». Ha detto proprio così, ieri, Enrico Letta, ed era serissimo. Capace che ci credeva pure. Era in piazza della Repubblica, davanti a qualche centinaio di ucraini della capitale radunati con gli sguardi smarriti e il cuore pesante. «Siamo qui con voi oggi per dimostrare che stiamo con voi. Siamo la stessa cosa». Lui e quelli del Pd, il partito della Ztl turbato per le emissioni di CO2, come i parenti dei bombardati e delle vittime di Kiev: uguali uguali, identiche angosce. Così preoccupati per le sorti dell'Ucraina, gli uomini e le donne del Pd, da farsi in due.
Un giorno la delegazione guidata dal vicesegretario Peppe Provenzano scende in piazza con l'Anpi, convinta che la reazione di Vladimir Putin sia stata «innescata dal continuo allargamento della Nato ad est, vissuto legittimamente da Mosca come una crescente minaccia». E quello dopo il loro segretario va a solidarizzare con i civili che pregano di essere salvati dall'Alleanza atlantica. Il sabato con la Cgil, contraria a fornire armi all'Ucraina, e la domenica con gli ucraini, per i quali le forniture di armi che abbiamo promesso sono troppo poco, e ci implorano di imporre la no-fly zone sui loro cieli, o almeno di dare loro i nostri aerei da guerra. Ed è chiaro, perché Letta ha studiato la mitologia progressista e perché ieri gli si leggeva in faccia, che mentre parlava pensava a quel giorno del 1963 in cui John F. Kennedy disse agli abitanti di Berlino Ovest «Ich bin ein Berliner», io sono uno di voi. Le mura delle terme di Diocleziano, alle sue spalle, come il Muro di Berlino. I momenti in cui si sente il respiro della Storia.
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La retorica della politica funziona così. Sfrutta le emozioni, che sono una leva potente, per smuovere gli elettori. Non si salva nessuno, tantomeno il JFK pisano, ma dinanzi ai parenti delle vittime e degli sfollati ci si aspettava un po' di pudore, a maggior ragione da parte del leader di un partito che promette di combattere populismo e becerume. Invece, Letta tocca il fondo del repertorio e scava. «Siamo qui», ha declamato, «a portarvi la solidarietà di tutti gli italiani e a ringraziarvi per l'esempio straordinario di resistenza e di leadership morale che state dando». Bravi, continuate così, siamo orgogliosi di voi. Solo che sta parlando con quelli il cui presidente ha risposto «Mi servono munizioni, non un passaggio» agli americani che volevano portarlo al sicuro in Polonia. E si può immaginare quale uso intendano fare della nostra solidarietà e dei nostri ringraziamenti. Tanto più quando vengono dal capo di un partito in cui metà degli eletti e degli elettori non fa distinzione tra aggressore e aggredito.
«Letta baionetta», lo sfottevano l'altro giorno i manifesti dei pacifisti. Senza capire, ottusi che sono, che quello in scena in questi giorni è Letta saponetta: risponde scivolando tra le parole, sguscia fuori da ogni decisione. Gli chiedono se la sinistra non sia spaccata tra la linea pacifista della Cgil e dell'Anpi e quella del ministro Lorenzo Guerini, che d'intesa con Mario Draghi sta aumentando la spesa per la difesa e inviando armi agli ucraini. Risposta: «La cosa peggiore che possa capitare sono divisioni e spaccature. È esattamente quello che vuole Putin». Bene, ma che vuol dire? Gli ucraini in piazza davanti a lui stanno con Volodymyr Zelensky e vogliono che l'Italia, assieme agli altri Paesi della Nato, impedisca agli aerei russi di volare nei cieli di Kiev. Il Pd con chi sta? La risposta del segretario è da sibilla cumana: «Noi siamo vicini a tutto quello che può aiutare, perché questa guerra si interrompa. Solo la diplomazia ci può aiutare».
Che ha la vaga parvenza di un rifiuto espresso da uno che ha una gran paura a parlar chiaro. Ma allora, visto che quella è la principale richiesta degli ucraini, lasciati soli a combattere, come fa Letta a guardarli in faccia e dire «siamo la stessa cosa», «siamo insieme a voi in una battaglia comune»? Comune a chi? Da Monte Sole gli fa eco la compagna Valentina Cuppi, sindaca di Marzabotto e presidente del Pd, alla guida della marcia della pace. «Le porte europee devono rimanere aperte a tutti coloro che scappano da guerre e sofferenze. Siamo pronti anche ad andare là, ad aiutare gli ucraini e portarli in salvo», promette orgogliosa. E questo certo che è vero, perché è la ragione sociale del Pd: risolvere tutti problemi del mondo, dalla fame all'innalzamento degli oceani passando per le guerre, svuotando i Paesi che ne soffrono e portando la loro popolazione in Italia. Continuano a non capire ciò che scrisse Karol Wojtyla, uno che di guerre e invasioni sapeva qualcosa: il primo diritto è quello a «non emigrare». Chiedere agli ucraini.