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Quirinale, il retroscena: Mario Draghi pronto a dimettersi se fosse passato Casini. Perché ora il premier non avrà pietà

Fausto Carioti
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Sergio Mattarella confermato obtorto collo al Quirinale col voto di 759 grandi elettori su 1.009 (l’altra volta furono 665) e determinato a restare lassù altri sette anni, che significherebbe scavalcare l'intera prossima legislatura. Mario Draghi inchiodato alla presidenza del consiglio, dalla quale, racconta chi ha vissuto al telefono la notte tra venerdì e sabato, è stato a un passo dal dimettersi: cosa che probabilmente avrebbe fatto se fosse stato eletto Pier Ferdinando Casini. La vittoria - l'ennesima - del dipartimento di Stato americano, della Conferenza episcopale italiana e di tutti quegli "ambienti" che da mesi puntavano sul mantenimento dello status quo. E adesso? Adesso, avverte chi nelle segreterie dei partiti ha tenuto i contatti col premier, inizia il governo Draghi, quello vero. Che non è l'esecutivo visto sinora, gestito con abbondante ricorso ai compromessi dall'ex presidente della Bce che sperava di succedere a Mattarella e si era obbligato a trovare un modus vivendi con i politici. Ma quello guidato da un tecnico che ha appena ricevuto dai partiti il grande rifiuto della sua vita e quindi non ha più nulla da chiedere ai loro segretari; semmai, ha qualcosa da dimostrare alle cancellerie europee e alle istituzioni internazionali, visto che ora ambisce a diventare presidente del Consiglio europeo o della Commissione Ue, due incarichi che saranno disponibili nel 2024.

IL PNRR (E NON SOLO)
Cosa significhi questa nuova fase, lo ha spiegato Draghi stesso ai suoi interlocutori politici, mentre trattava con loro sui possibili (e non realizzati) "sviluppi istituzionali". Chi lo ha ascoltato, la riassume così: «Una riforma a settimana, senza guardare in faccia a nessuno». Regole scritte con i parametri del tecnico puro e non più di quello "prestato alla politica". Se non è il prezzo da pagare per non averlo eletto presidente della repubblica, gli assomiglia molto. Non c'è bisogno di inventarsi nulla di nuovo, sono interventi dei quali si discute da tempo, molti dei quali previsti nel Piano nazionale di ripresa e resilienza concordato con Bruxelles. Sinora, però, c'è stato un margine di "interpretazione" che ha consentito a Draghi una coabitazione tutto sommato pacifica con i partiti: dovendo scegliere tra la coerenza e la convivenza, il premier spesso ha sacrificato la prima sull'altare della seconda. Non sarà più così. Sulle concessioni demaniali marittime, ad esempio.

 

 

Da mesi balla la questione della legge che dovrebbe riassegnarle mediante gare pubbliche: non è stata fatta perché Forza Italia, Lega e Pd si sono opposti. «Dobbiamo prepararci», avvertiva ieri sera un esponente forzista che ha a cuore la pratica, «Draghi ora non avrà più motivi per usare il guanto di velluto». Discorso simile per la liberalizzazione delle licenze degli ambulanti: la legge sulla concorrenza varata nel 2021 non interviene sulla questione, ma nessuno si illude più che l'argomento sia ignorato pure nella prossima. Fuori dal perimetro del Pnrr c'è la riforma delle pensioni, con il superamento della legge Fornero: tutta ancora da scrivere. Draghi aveva ipotizzato il ricalcolo integralmente contributivo dell'assegno, secondo il criterio per cui «ognuno prende quanto ha versato»: significherebbe una pensione più bassa per chi lascerà il lavoro nei prossimi anni. L'idea, però, era rimasta lì, sospesa, in attesa di capire come sarebbe finita la partita per il Colle: ora che il risultato è noto, è chiaro pure quello che ci si dovrà aspettare. Sulla riforma del catasto e la conseguente revisione degli estimi è stata approvata una legge delega che, a seconda di come sarà usata dall'esecutivo, potrà portare o meno a quell'aggravio della pressione fiscale sugli immobili che le autorità europee chiedono da tempo. Draghi si era mostrato cauto per ragioni politiche, evaporate ieri sera. Temono anche i Cinque Stelle: il premier sino ad oggi ha tollerato il reddito di cittadinanza, limitandosi ad un ritocchino, perché così pretendevano loro, primo partito della coalizione; uno scrupolo che adesso può abbandonare.

 

 

ASPETTANDO LE ELEZIONI
Se qualche partito non lo seguirà e minaccerà di levargli la fiducia, il presidente del consiglio non se ne farà un cruccio: il casolare di Città della Pieve, a un'ora e tre quarti da Roma, è lì che lo attende. Spetterà a chi avrà provocato la crisi spiegare perché gli interessi sui titoli di Stato italiani sono decollati in una notte, o perché qualche tranche di soldi del Pnrr (tutte legate al raggiungimento di determinati obiettivi, anche intermedi) è stata bloccata, in attesa di chiarimenti. Anche così, con l'avvio di questa "Fase 2" nel momento peggiore per i partiti, a un anno dalle elezioni politiche, si spiegano le voci di «rimpasto» che sono girate ieri e i segnali inviati da Giancarlo Giorgetti: stretto tra Draghi e Matteo Salvini e sapendo ciò che attende il governo, il ministro dello Sviluppo ha già fatto capire di essere pronto a lasciare l'incarico. Un "kindergarten" nel quale i partiti siano liberi di sfogarsi, Draghi lo ha comunque previsto: è quello delle leggi sulle questioni etiche e sui diritti civili, come il ddl Zan che tornerà di moda tra tre mesi, e della riforma della legge elettorale. Se Pd, Lega, M5S e gli altri la preferiscono proporzionale, si accomodino pure: non è materia di governo e sarebbe il giusto omaggio allo sfascio dei partiti e delle coalizioni che si è visto in questi giorni. 

 

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