Quirinale, la Camera ribolle come la Libia: se i capi non controllano più le loro tribù in lotta
Come la Libia. Viene quasi da rimpiangere un Gheddafi qualsiasi, un fustigatore di peones, magari anche un bonario doroteo che dia anche alla lontana l'idea di un ordine, di un senso, di una strategia, che sposti da una parte la destra e dall'altra la sinistra, spinga il centro un po' di qua e un po' di là. Facendo alla fine saltare fuori il Nome! Da votare ostinatamente, guadagnando due e tre voti per volta, salvo estrarre l'Asso dalla manica. Niente da fare. Non si vede l'ombra di una simile autorevolezza. Enrico Letta? Propone conclavi dove radunare i capi e uscire con il nome, come se fosse una prova di tiro alla fune e non l'emergere di un disegno dove - piaccia o no - a tenere il mazzo tocca al centrodestra. Ma chi comanda? Ci prova Matteo Salvini, ma per ora la sua rete non prende pesci. Per ora, ovvio. Non siamo profeti. Fotografiamo il presente. E Montecitorio ieri era peggio di Tripoli e Bengasi, divise ma senza neppure la forza di cannoneggiarsi. Beduini estenuati si aggirano cercando l'oasi che non c'è, però la buvette almeno quella funziona. Rispetto alla Libia mancavano i missili terra aria, e non ci sono i mercenari russi e quelli turchi. In compenso, qui le tribù sembrano addirittura di più delle 140 che il raìs riuscì a tenere insieme con pugno di ferro, petrolio e amazzoni piacenti, ed oggi sono un guazzabuglio di brave persone e di tagliagola. Quanto a clan, famiglie, fazioni e frazioni, bande e camarille, il glorioso Palazzo dove si esibisce la politica italiana nella sua massima espressione di democrazia è stato uno spettacolo mesto.
IL CAMMELLO IN CURVA
Non si è sentito un solo urlo, una maledizione, una finta scazzottata, niente. Era come un brodo dove galleggiava una democrazia senza vibrazioni, correnti spumeggianti. In Libia la Cirenaica ha un capo che si chiama Khalifa Haftar, la Tripolitania ha - anche se precario- il premier Abdul Dbeibah, il Fezzan è in mano ai capi dei trafficanti di uomini e droga. Qui Montecitorio i leader non riescono a tenere insieme gli eserciti, i vari generali fanno valere con vigore ciascuno la sua mancanza di idee. Alle 11 è cominciata la terza votazione. La prima chiama si dice in gergo. Nei volti dei quasi mille grandi elettori si avverte la netta percezione che non accadrà nulla, ciascuno fa tribù per sé stesso, e si unisce con il suo cammello alla carovana che promette lapislazzuli e una lunga legislatura. Dura mezz' ora l'infatuazione, e poi passa un altro corteo e si va in gita per un po' con quello, fino alla prossima curva. Le agenzie raccolgono decine e decine di pagine con dichiarazioni dove un qualsiasi nome pronunciato dal centrodestra viene fatto passare per eversivo, divisivo, capace di sconquassare la Repubblica. Ma anche da destra ci si fa del male. Pier Ferdinando Casini non è di destra, per carità. Dialogava vivace con Maurizio Gasparri, qualcosa si muove da quella parte. Forse la rivincita della politica unita contro i tecnici dalla prosopopea madornale. Ed ecco che da Fratelli d'Italia un bravissimo deputato, di solito misurato, definisce l'inosssidabile Pier "agghiacciante", come fosse Belfagor, lo spaventoso fantasma del Louvre. Il fatto è che a destra non è che sia tanto chiara la strategia. Ufficialmente l'indicazione era scheda bianca, dando la possibilità a sinistra di maturare una scelta per un candidato del tipo Moratti, Casellati, Nordio, Pera. Stanca del tira e molla, e non essendo il colore bianco, evocando democristianerie, quello preferito da Giorgia Meloni, ella ha proposto il gigante Guido Crosetto, uno con idee chiare e precise, dure e pure, eppure capace di farle digerire ai cannibali come zuccherini. Ebbene sulla carta i grandi elettori di Fratelli d'Italia sono 63. Guido ha avuto 114 voti. Uno che la sa lunga mi dice: non sono voti di Forza Italia o Lega, ma dei Cinque Stelle della corrente milanese e liberal di Stefano Buffagni, in dissenso a Conte. Ma no, il vero dissenso è quello che si esprime dando voti a Mattarella, addirittura 125. È lui il Numero uno. Per coerenza dovrebbe fare come un dì fece il suo predecessore anch' egli democristiano Oscar Luigi Scalfaro, e andare in tibù a scandire: "Non-ci-sto!". Invece lascia fare, come le ritrose signorine di Fogazzaro. Le schede bianche sono soltanto 412 su 978 votanti. Centrodestra e centrosinistra+M5S avevano dato indicazione di non segnare alcun nome. Risultato? Non controllano neppure la metà delle schede. Pura situazione libica. E così parlamentari scafati e deputati pivelli si sentono potentissimi, inondano il Transatlantico creando capannelli come i pensionati di una volta in piazza Duomo a Milano, improvvisandosi docenti di scuola di guerriglia politica. Vogliono essere sicuri che non si vada a elezioni. Ma il nome giusto quale mai sarà?
CI VUOLE PAZIENZA
Alle 15 e 33 di ieri, dopo essersi vivamente sfregati le mani con l'amuchina per il contatto con schede abbastanza velenose, i segretari d'aula consegnano il foglietto a Roberto Fico. 4 ore e 33 minuti di rito senza alcun costrutto. Il presidente della Camera deve dire due parole, e riesce a sbagliare pure quelle due. Annuncia il risultato delle votazioni, nessuno è stato eletto, ma tanti i votati. L'elenco è lungo. Colpisce tale Sciscione che ha ottenuto due preferenze come Bruno Vespa. Quindi annuncia solennemente che domani (oggi per chi legge), si terrà la terza votazione. Ancora la terza? Un commesso lo blocca, lo fa correggere: ci sarà la quarta votazione, perché 3 + 1 fa 4. Il primo a votare era stato Umberto Bossi, in carrozzina, erano le 11 e 1 minuto. Sapeva che era una passeggiata inutile, ma si fa condurre tra i ghirigori pedonali per raggiungere la cabina dentro cui ci si nasconde per non far vedere chi è il prescelto. Lui dice: ci vuole pazienza. Ma che barba. Il mondo intanto ci guarda, la nostra politica sembra la Libia. Per fortuna non gliene frega niente a nessuno, né in Italia né in Papuasia.
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