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Quirinale, il Pd e la pretesa di una superiorità morale: candidato condiviso, ma solo di sinistra...

Corrado Ocone
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Siamo giunti alle minacce, anzi ai ricatti. «Se passa un Presidente o una Presidente con 505 voti raccolti fra cambiacasacca e gruppo misto, se questo è il quadro, se si rompe la maggioranza, un minuto dopo, per quanto ci riguarda, è finita la legislatura». Questo è quanto ha affermato Francesco Boccia, importante membro della segreteria, in una intervista radiofonica. E altri esponenti del Pd gli hanno fatto subito eco.

Strana concezione della democrazia! E anche la mossa disperata di un partito che si finge ipocritamente perbene ma, quando si trova stretto alle corde, mette in campo il suo volto più arcigno e in atto le più subdole armi politiche. Le stesse armi che ad esso sono permesse e che, se usate dagli avversari, sarebbero la prova provata della loro "irresponsabilità". Un vero e proprio "doppiopesismo" che la sinistra giustifica con la sua pretesa e presunta "superiorità morale".

 

 

 Ricapitoliamo. Matteo Salvini ha sottoposto i nomi di tre eccellentissime personalità di area, fra l'altro non iscritte a nessun partito, contrassegnate da un forte senso delle istituzioni e dello Stato. A quel punto, la risposta della sinistra poteva essere di apprezzamento e poteva poi contemplare la presentazione di una rosa di personalità con le stesse caratteristiche (alto profilo e garanzie di "terzietà") ma più riconducibili alla propria area. Sarebbe stato un bel passo avanti per quella piena legittimazione reciproca fra le forze politiche che dovrebbe essere propria di una democrazia matura.

Sempre a quel punto, ci si sarebbe potuti contare in aula. Che è quanto è avvenuto quasi sempre in passato, anche se il prescelto era per lo più un Presidente di sinistra. Perché questa volta il "moderato" Letta e i suoi compagni abbiano deciso di minacciare di far saltare il tavolo è invece abbastanza evidente. Se è vero, infatti, che centrodestra e centrosinistra non hanno né l'uno né l'altro la maggioranza sulla carta, è pur vero che, delle due alleanze, la prima sta messa molto meglio e parte perciò avvantaggiata: sia numericamente sia perché è più coesa di quella che ha come suo pilastro un M5S allo sbando. Resosi conto di ciò, Letta si è inventato la strategia del "nome non divisivo" e ha deciso di non presentare nessuna rosa.

 

 

Per quel che concerne la "non divisività" si è subito capito che essa doveva essere realizzata non con un compromesso fra le forze politiche ma con l'accettazione a scatola chiusa da parte della destra di un candidato gradito ai compagni. Per i quali il super partes è sempre uno della propria parte, perché la propria parte è, gramsciamente, parte e tutto insieme e, gnosticamente, rappresenta il Bene che deve combattere e vincere il Male. Resosi conto infine che la strategia che finora aveva sempre funzionato questa volta trovava seri ostacoli in un leader leale ma forte come Matteo Salvini, il Pd ha messo in campo l'arma definitiva: la minaccia, appunto, di far saltare il tavolo e mandare il Paese dritto alle elezioni (furbissima mossa, fra l'altro, per ricompattare un po' di grillini). Che c'entri poi, da un punto di vista istituzionale, la maggioranza che sorregge un governo di emergenza nazionale con l'elezione di un Presidente della Repubblica, tanto più se la sua figura è all'altezza del ruolo, non è dato capire. O meglio lo si capisce fin troppo bene se non ci si fa abbindolare dalle ipocrite autocertificazioni di disinteressata fede democratica che la sinistra ci propina ogni giorno attraverso le parole e gli atti dei suoi esponenti e mercé una aggressiva stampa amica. 

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