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Mario Draghi vuole il Quirinale? Allora tratti con i partiti: il "niet" con cui il premier rischia di condannarsi

Fausto Carioti
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Le condizioni per il rilancio della candidatura di Mario Draghi alla presidenza della repubblica le spiega Matteo Renzi, piaccia o meno il più lucido (anche stavolta). «Chi vuole andare al Colle non ci va contro i partiti. Credo che la candidatura di Draghi possa stare in piedi se ha l'appoggio dei partiti. Poi vedremo se i veti di Berlusconi e Salvini sono insuperabili». Tradotto: l'ex presidente della Bce la smetta di tirarsela, alzi quella cornetta e chiami chi di dovere, iniziando dal leader di Forza Italia e da quello della Lega; solo così, con un po' di umiltà, riuscirà a tornare in pista. Anche perché nulla, ancora, è stato deciso. L'unica certezza è infatti che oggi, alle ore 15, a Montecitorio si parte da zero. E in fondo va bene così a tutti: non solo a Draghi, ma pure ai "papabili" Pier Ferdinando Casini, Maria Elisabetta Casellati, Marta Cartabia e tutti gli altri a scendere.

 

 

Meglio mandare avanti i candidati di bandiera e le schede bianche e restare coperti nei primi tre turni, in cui servono 672 voti per spuntarla, e uscire allo scoperto dopo, quando l'asticella scenderà a quota 505. (Il solo concorrente cui non conviene il caos attuale è Sergio Mattarella, ma il suo è un caso a parte, trattandosi dell'unico che non vuole essere in gara). La "questione Draghi" intanto rimane sul tavolo e condiziona gli altri nomi. Non solo perché le sue quotazioni possono sempre risollevarsi (magari grazie ad un aiutino dei mercati: occhio allo spread), ma perché, dopo avergli detto che non può andare al Quirinale, i partiti devono assicurarsi che «il nonno al servizio delle istituzioni», come si era definito un mese fa, rimanga comunque alla guida del go verno, e questo non è affatto scontato. Perdere Draghi è un lusso che oggi l'Italia non si può permettere e le sue preferenze, se non potrà andare al Colle, sono no te: una cosa per lui è confrontarsi con un capo dello Stato come Mattarella o Giuliano Amato, coi quali s' intende alla perfezione, un'altra è un politico messo lì come compromesso al ribasso. Anche di questo, volenti o nolenti, i 1.008 grandi elettori dovranno tenere conto.

 

 

La debolezza dei partiti è tale che c'è paura persino a presentare candidati di bandiera, come il cattolico terzomondista Andrea Riccardi, fondatore di sant' Egidio, che piace ai leader di Pd, M5S e Leu: se dovessero scoprire che neanche i loro par lamentari lo votano, la traballante alleanza entrerebbe subito in crisi. Tutti vorrebbero trovare l'accordo prima di giovedì, quando il quorum scenderà. Nessuno, però, esclude che la quarta votazione possa essere usata dagli schieramenti per contarsi, risolvendosi anch' essa in un nulla di fatto. Ma al più tardi venerdì, alla quinta tappa, i giochi cambieranno. Da qui ad allora Renzi dovrà aver capito se è possibile raggiungere l'intesa sul suo candidato Casini, che conta amici un po' ovunque, ma rimane indigesto per la Lega e il M5S. Altri nomi di compromesso sono quelli di Amato e Franco Frattini, che uniscono un profilo bipartisan con un curriculum istituzionale di livello. Se entro venerdì, però, la situazione non si sarà sbloccata, sarà inevitabile ripartire da Draghi, per il quale intanto continuano a lavorare Enrico e Gianni Letta e Luigi Di Maio.

Il ministro degli Esteri ieri raccontava che Salvini avrebbe già detto di sì al premier. «Draghi non è un'opzione adesso», rispondono dai vertici della Lega: smentita che lascia aperto uno spiraglio, che il segretario del Pd proverà ad allargare nel colloquio che avrà oggi con Salvini. Altrimenti non resterà davvero che rivolgersi a Mattarella, come avvenne con Giorgio Napolitano nel 2013, e chiedergli il "sacrificio" di disfare gli scatoloni e rimandare il trasloco. «Sarebbe il massimo, la soluzione ideale e perfetta», ripeteva ieri sera Letta. E nella sua estasi c'è tutta l'impotenza del Pd e del resto del parlamento.

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