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Mario Draghi, obiettivo-Quirinale: le mosse per fermare Berlusconi e la "manina" di Carlo De Benedetti

Pietro Senaldi
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Per l'ennesima volta Silvio Berlusconi sta per mandare i dirigenti del Pd sul lettino dello psicanalista. Il Cavaliere è l'eterna ossessione dei progressisti. Dopo averlo combattuto con ogni mezzo, specie i più subdoli, per 25 anni, i democratici si erano illusi di essersene liberati, cacciandolo dal Parlamento grazie a una legge retroattiva. Zingaretti, Letta e compagni erano così convinti che l'uomo di Arcore fosse un reperto del passato che avevano iniziato a tesserne le lodi in chiave anti-Salvini, come se Silvio fosse un Fini qualsiasi. Per dividere il centrodestra, da un paio d'anni la sinistra si spella le mani per applaudire il nuovo Berlusconi, istituzionale, moderato, di statura internazionale. 

In realtà il Cavaliere è sempre stato così, solo che finché non sono esplosi Salvini e Meloni, e lui era il signore dei voti, i dem lo trattavano come un nemico e non come potenziale quinta colonna. Fatto sta che, un po' come Occhetto nel 1994, anche gli ex comunisti avevano fatto i conti senza l'oste. Anche grazie al loro cambio di narrazione, il Cavaliere, riabilitato dai giudici, è risorto e si è candidato ufficialmente al Quirinale. Il suo giornale di famiglia scrive quotidianamente un editoriale dove enfatizza i motivi, ogni giorno uno in più, per cui Silvio capo dello Stato sarebbe la panacea per i mali dell'Italia. Ieri, la figlia prediletta Marina, usa a parlar poco, ha messo le mani avanti dicendo che è bastata l'ipotesi del padre al Colle per far ripartire la macchina del fango rossa. 

 

E in effetti ha centrato il punto. Più guardano il pallottoliere e più i compagni tremano. Per la prima volta nella seconda Repubblica infatti la sinistra non ha i numeri per eleggere il capo dello Stato, anche grazie al fatto che la maggior parte dei delegati regionali stavolta proviene dal centrodestra. E così il Cavaliere, più che sperarci, ci crede, anche perché Lega e Fratelli d'Italia si sono detti pronti ad appoggiarlo. Con la pattuglia dei 47 renziani, basta convincere in qualche modo una quarantina di grillini senza più padrone e senza nessun futuro in Parlamento e il gioco è fatto. Gli opliti a cinquestelle sono ormai mercenari in vendita, facile a essere tentati con promesse neanche troppo impegnative. 

PARTITA A DUE
Certo, Berlusconi ha il problema di essere divisivo, però in molti hanno da guadagnare mandandolo al Colle. Innanzi tutto la Lega alla quale, con Forza Italia decapitata, si aprirebbero nuovi orizzonti di crescita. Il discorso, con pochi distinguo, vale anche per Fdi. Salvini e Meloni poi puntano a Palazzo Chigi e Silvio al Quirinale, in caso di vittoria elettorale del centrodestra, renderebbe più facile l'incarico a uno dei due leader sovranisti. Dei grillini in saldo, truppe allo sbando, si è detto, ma anche Renzi, sempre più diviso tra politica e attività privata, si troverebbe improvvisamente in una situazione migliore. Primo perché il Cavaliere conosce la gratitudine, secondo perché il dissolvimento di Forza Italia libererebbe gran parte dell'elettorato moderato, consentendo alle forze di centro, e Italia Viva ormai non è più di sinistra, di riorganizzarsi in un fronte più compatto ed elettoralmente appetibile. Questo lo sa la sinistra, ma lo ha capito anche Draghi. 

 

La situazione ha subito un'accelerazione da quando al Pd è venuta meno la carta della conferma di Mattarella. I dem, senza alternative credibili, ci credono ancora, tuttavia tenere il presidente prigioniero al Quirinale contro la sua manifesta e ripetuta volontà configurerebbe una sorta di sequestro di persona. Non che i progressisti siano soliti farsi scrupoli, però a tutto c'è un limite. Ed ecco allora che la partita è a due: SuperSilvio e SuperMario, con il secondo strafavorito, perché Letta e compagni saranno costretti a sostenerlo pur di evitare Berlusconi, che per loro sarebbe l'ipotesi peggiore, ma anche molto più nervoso del primo. Il giornale del Cavaliere, ben sapendolo, invita Draghi a manifestare le proprie intenzioni, visto che la scusa del rispetto a Mattarella non esiste più, ora che il presidente fa ogni giorno pubblicamente il conto alla rovescia delle settimane che lo separano dalla sua pensione-liberazione. Il premier vorrebbe l'acclamazione anche per il Quirinale, come è stato per Palazzo Chigi, non risultare eletto dopo numerose e snervanti votazioni. Il punto è che la vuole senza candidarsi, il che complica la partita, e pure cercando fino all'ultimo di dissimulare le proprie aspirazioni. Se si utilizza questa chiave di lettura, si possono cogliere molti segnali, compreso il barista di lady Draghi, che rivela alla stampa che la signora, tra uno spritz e l'altro, gli avrebbe confessato che il marito ambisce a sostituire Mattarella.

LO SPAURACCHIO
Se si esce dal gossip e si prende in mano quello che, tra i tanti giornali che incensano il premier, può essere considerato l'house organ dell'ex banchiere, ovverosia il Domani di Carlo De Benedetti, l'autocandidatura è quasi palese. L'apertura di ieri illustrava infatti l'ipotesi di un Draghi al punto indisponibile a restare a Palazzo Chigi un altro anno come foglia di fico sull'inadeguatezza dei partiti dal valutare di dimettersi dopo l'approvazione della Finanziaria. Avrebbe così assolto all'impegno preso con Mattarella di vaccinare il Paese e avviare il Pnr, e l'addio del presidente lo libererebbe da ogni obbligo personale con lui. A questo punto il governatore, fuori dai giochi, sarebbe disponibile alla nomina e non più soggetto al ricatto della necessità di evitare elezioni anticipate. Ma a pensarci bene, un segnale Draghi l'ha dato anche direttamente. 

 

Il suo rimprovero in tema di immigrazione all'Europa, accusata di lasciare l'Italia alle prese con una situazione insostenibile, è la frase più politica che il premier ha pronunciato da che è a Palazzo Chigi. Messaggio ai naviganti, di destra e di sinistra: se non vado al Colle, non vado neppure in pensione, in qualche modo resto in politica. E siccome nell'attuale quadro, tra la crisi dei partiti, l'astensionismo imperante, l'appoggio incondizionato di cui l'uomo gode tra banche, imprese e apparato pubblico, nonché la sua credibilità assoluta, mediatica e internazionale, non c'è nessuno che possa tenergli testa, un Draghi che si mette a far politica, anche per interposta persona, è il vero spauracchio di tutti. L'elogio fatto da Mattarella a Leone ed Einaudi, contrari a un doppio incarico presidenziale, ha aperto una nuova fase nella corsa al Quirinale. Il premier è partito, consapevole che le forze politiche sono a un bivio: o lo promuovono sul Colle più alto o lui se li mangia in un boccone.

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