Mario Draghi sempre più lontano dal Quirinale: perché la crisi del Pd frena la sua corsa
Il problema, nel gioco di posizionamento già cominciato in vista dell'elezione del prossimo presidente della Repubblica, è capire quali sono i messaggi veri e quali i bluff. Tra il fine settimana e ieri, per esempio, sembrava essere torna forte l'ipotesi di Mario Draghi al Colle. A rilanciarla, ieri, disegnando uno scenario azzardato, è stato Giancarlo Giorgetti, in una intervista rilasciata a Bruno Vespa nel libro "Perché Mussolini rovinò l'Italia (e perché Draghi la sta risanando)", in uscita il 4 novembre per Mondadori Rai Libri, ha detto il ministro leghista, «potrebbe guidare il convoglio anche dal Quirinale». In realtà, le ipotesi del ministro leghista sono due. La prima sarebbe un bis dell'attuale presidente: «Già nell'autunno del 2020 le dissi che la soluzione sarebbe stata confermare Mattarella ancora per un anno». Ma «se questo non è possibile, va bene Draghi».
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E il governo? Non lo esclude Giuseppe Conte: nessuna «preclusione» per l'attuale al Quirinale, ha detto ieri ospite a Porta a Porta. Ma non è la prima scelta: «Ci impegneremo con il Movimento cinque stelle perché sia una figura di alto profilo, che possa essere una garanzia per l'unità nazionale». In ogni caso, se proprio dovesse essere Draghi, mette in chiaro. E apre al centrodestra: «Credo ci stia tutto anche il confronto con le forze di centrodestra, perché se riusciamo a perseguire questo obiettivo sicuramente avremo maggiori garanzie di una personalità che rappresenti l'unità nazionale». L'ipotesi suggestiva, però, lascia freddi la maggior parte dei partiti. «Io sono un grande estimatore del presidente Draghi e lavoriamo convintamente ogni giorno. Però non mi presto adesso al totonomi, è troppo presto», ha detto Luigi Di Maio, a DiMartedì. E ha osservato che se si andasse al voto anticipato a febbraio, «un governo non lo avremo prima di giugno o luglio. Cioè quando dovremo iniziare a spendere i 230 miliardi di euro dei fondi europei non avremo un governo nel pieno dei suoi poteri».
Non ne è convinto quello che più di tutti lo ha voluto a Palazzo Chigi, ossia Matteo Renzi, ha detto a Zapping. E ha rilanciato Pier Ferdinando Casini: «È un ex-presidente della Camera dei deputati, in molti casi gli ex-presidenti della Repubblica sono stati prima presidenti di uno dei rami del Parlamento». Nel Pd l'ipotesi è considerata una mezza sciagura: «Se Giorgetti ritiene che si debba evolvere verso un sistema semipresidenziale, presenti un ddl e si faccia promotore di una riforma», ha risposto Enrico Borghi, Pd, vicinissimo a Enrico Letta. E anche Andrea Marcucci, senatore dem tra i più entusiasti di Draghi, ha bollato l'ipotesi come. Non ci pensa nemmeno Carlo Calenda, che Draghi lo vorrebbe a Palazzo Chigi anche dopo il 2023: «Sarebbe uno spreco mandarlo al Quirinale». E poi i sistemi istituzionali, ha scritto su Twitter. Idem il M5S. «Di sicuro è solo una battuta», liquida la cosa il cinquestelle Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia della Camera. Il fatto è che la proposta di Giorgetti presenta vari problemi. Il più evidente è chi guiderebbe, al suo posto, il governo. Nessuno, infatti, ad eccezione di Giorgia Meloni, vuole che questa legislatura finisca prima del tempo. E Luigi Di Maio, ieri alla Stampa, lo ha ridetto: tornare al voto è impensabile perché «vorrebbe dire bloccare la ripresa del Paese».
Ma quale figura potrebbe tenere insieme l'attuale variegata maggioranza? La scelta naturale ricade su Daniele Franco, ministro dell'Economia. O su Renato Brunetta, il ministro più anziano. Ma i partiti accetterebbero la loro autorità, come ora fanno con Draghi? Oppure si scivolerebbe al voto? Questo è lo spettro che fa escludere, a detta di molti, l'ipotesi. C'è poi un altro problema. Se anche si raggiungesse un accordo su un premier, chi sarebbe in grado di farlo rispettare? «Questo», dice un esponente del Pd, «è un Parlamento senza capi che guidano le truppe. Il gruppo più numeroso, il M5S, è balcanizzato. Il Misto, che conta 100 parlamentari, è una nebulosa. Il Pd è fatto di mille tribù». Tanto che Letta, in questi giorni, ha chiesto a Simona Malpezzi, capogruppo dem al Senato, di capire quanto il dissenso espresso sul ddl Zan potrebbe materializzarsi anche sul voto del Quirinale.