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Voto anticipato addio, chi sono i 661 parlamentari che non ci faranno votare: tutto per il denaro

Fausto Carioti
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C'è un "partitone" trasversale composto da 690 senatori e deputati, i quali hanno tutto l'interesse a far sì che la legislatura vada avanti almeno sino al 24 settembre del 2022. Che è come dire sino alla scadenza naturale, fissata sei mesi dopo: difficile credere che nell'autunno del prossimo anno, con la legge di bilancio da scrivere, a qualcuno venga in mente di far saltare governo e Camere per portare gli italiani ai seggi sotto Natale. Stesso motivo per cui è azzardato prevedere che a febbraio sia proprio Mario Draghi a prendere il posto di Sergio Mattarella: di tutti gli eventi possibili, il suo trasloco è quello che più metterebbe in pericolo la legislatura, e con essa il vitalizio dei parlamentari di prima nomina. È questo assegno, infatti, la variabile da tenere presente: più degli schieramenti di partito, dei vincoli di coalizione e di ogni nobile ragione della politica. La questione riguarda tutti i neoeletti: 690 su un totale di 950 parlamentari, appunto. Ossia un esercito di 446 deputati e 244 senatori, il 71% degli inquilini di Montecitorio e il 76% di quelli di palazzo Madama. Per loro vale il sistema previdenziale introdotto nel 2012. Quali possibili implicazioni esso abbia sulla durata della legislatura, lo spiega bene uno studio appena pubblicato dall'Osservatorio sui conti pubblici italiani, diretto da Carlo Cottarelli.

 

 

 

ASSEGNO A 65 ANNI

Il meccanismo prevede che la pensione dei nuovi eletti sia erogata al compimento dei 65 anni, che possono scendere sino a 60 in caso di ulteriori mandati. Ciò che conta in questa fase, però, è che i parlamentari potranno richiedere il vitalizio solo se avranno svolto l'incarico per cinque anni. Che, in virtù del sistema di calcolo adottato, diventano 4 anni, 6 mesi e un giorno, da raggiungere in una o in più legislature. I parlamentari che non ci riuscissero perderebbero completamente i contributi versati. E si tratta di molti soldi: per un deputato che arrivasse a quattro anni e sei mesi di mandato, la somma corrisponde a circa 50mila euro. Di quei 690 neoeletti, la grandissima parte, 661, è entrata in carica all'inizio della legislatura. Per tutti loro, la data cerchiata in rosso sul calendario è il 24 settembre 2022. I restanti "novellini" sono arrivati dopo, subentrando ad altri: non festeggeranno quel giorno, ma hanno comunque tutto l'interesse a far sì che il mandato si prolunghi il più possibile. L'incentivo a tenere in piedi la legislatura è reso ancora più alto dalla bassa probabilità di essere rieletti, conseguenza della riduzione del numero dei parlamentari che scatterà al prossimo giro: se ne andranno in 945, ne entreranno 600. Ovviamente, la paura è più forte nei partiti che dal marzo del 2018 ad oggi hanno perso più consensi. Dalle tabelle dell'osservatorio di Cottarelli è facile, quindi, trarre qualche considerazione politica. Ad esempio la truppa di Fratelli d'Italia, pur contando 53 neoeletti su un totale di 58 parlamentari, non dovrebbe temere uno scioglimento anticipato delle Camere: allora presero il 4,3% dei voti; oggi, in tutti i sondaggi, veleggiano attorno al 20%. Un margine ampio quanto basta da garantire a ognuno di loro, se ricandidato, alte probabilità di rielezione. Anche per questo, non stupisce che Fdi sia l'unico partito che appaia davvero favorevole al voto anticipato. Gli eletti di Giorgia Meloni sono infatti un'eccezione. Tra i grandi partiti, quello che esce peggio dalla "prova del vitalizio" è il movimento Cinque Stelle. Non solo, tra i 233 parlamentari che gli sono rimasti (moltissimi sono scappati), conta 172 neoeletti (il 74% del totale), ma è anche quello che ha perso più elettori: dal 33% preso ai seggi di tre anni fa al 16% dei sondaggi attuali. Pure i ranghi della Lega abbondano di reclute: ben 180, il 90% dei suoi eletti. E anche loro, come tutti gli altri, dovranno pagare pegno alla riduzione del numero dei parlamentari. Almeno, però, non dovrebbero essere penalizzati dagli elettori, visto che i sondaggisti, ancora oggi, accreditano il partito di Matteo Salvini di percentuali più alte di quelle uscite dalle urne del 2018 (19% contro 17,3%).

 

 

 

TANTE RECLUTE

Al di là delle singole sigle, il dato con cui ogni leader e chiunque passi le giornate ad elaborare strategie per il Quirinale deve fare i conti è che il 70% dei parlamentari è terrorizzato all'idea di perdere contributi e vitalizi. Se all'equazione si aggiunge l'articolo 83 della Costituzione, per cui «l'elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto», è facile intuire il pericolo che correrebbe la candidatura di Draghi: in assenza di garanzie sulla tenuta della legislatura (che oggi non si vede da chi, e come, potrebbero essere date), centinaia di anonimi neoeletti avrebbero tutto l'interesse a scrivere un nuovo capitolo della storia dei franchi tiratori del Parlamento italiano. Motivo in più per maneggiare con cautela il nome dell'attuale presidente del Consiglio, che non può essere mandato allo sbaraglio come un ddl Zan qualunque. 

 

 

 

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