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Papa Francesco faccia a faccia con Joe Biden: quella domanda sull'aborto che non gli ha fatto

Carlo Nicolato
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«È bello essere di nuovo qui» ha detto il presidente Joe Biden all'arrivo in Vaticano per l'udienza con Papa Bergoglio, e non c'è ombra di dubbio che per lui in questo momento sia meglio stare a Roma piuttosto che a Washington dove tra i democratici tira un'aria irrespirabile. Meglio parlare col Papa con il quale, si sa, c'è vecchia e sentita stima, sin da quando di mestiere faceva il vicepresidente di Obama. Sin da quando i due discorrevano dell'enciclica ambientalista "Laudato sii" e Biden si dichiarava innamorato di quel Pontefice che criticava i programmi sull'immigrazione dell'allora candidato Donald Trump (era il 2016). 

 

Lontano dalle telecamere per ordine del Papa, escluse insieme al codazzo dei giornalisti perfino durante la fase preliminare del colloquio (una curiosa novità rispetto al passato), durante l'incontro sembra si sia parlato di Covid, di immigrati, di diritti umani, con il presidente americano che ha definito Papa Francesco «il più grande combattente per la pace che abbia mai conosciuto». Nessun cenno, almeno stando ai resoconti ufficiali, all'aborto di cui il cattolico devoto Biden è comunque sostenitore. Meglio concentrarsi sul clima sul quale tra Bergoglio e Biden non c'è alcun tipo di disaccordo. Tantopiù che è il tema del momento, il motivo principale per cui il presidente americano si trova in Europa, quello per cui dopo Roma volerà a Glasgow per il Cop26. 

FAIDA DEMOCRATICA
Il problema semmai per Biden è che in Europa appunto avrebbe voluto arrivare con l'appoggio del Congresso e con quello del suo partito. Ma non ce l'ha fatta. L'ultimo tentativo per mettere d'accordo i dem sul difficile equilibrio tra piano infrastrutture, quello del welfare e quello green, è passato per l'accorpamento degli ultimi due con una riduzione del budget dai 3500 miliardi di dollari iniziali a 1750 miliardi. Il presidente ha usato parole solenni per presentarlo nei giorni scorsi. «È il più significativo investimento della nostra storia per affrontare la crisi climatica» e potrebbe permettere agli Stati Uniti di tagliare fino al 52% delle emissioni entro il 2030, ha detto. 

 

«Lo faremo in modi che faranno crescere le industrie nazionali, che creeranno buoni posti di lavoro e affronteranno anche le ingiustizie». E poi ancora «creerà milionidi posti di lavoro, farà crescere l'economia, investire in nazione e nostro popolo, trasformerà la crisi climatica in opportunità, ci metterà sulla via non solo di competere ma di vincere la competizione economica nel ventunesimo secolo contro la Cina e tutti i grandi Paesi del mondo». Insomma, la panacea di tutti i mali, la salvezza del mondo e della Patria contro i cattivi che ne insidiano il primato. In fondo che cosa vorrebbe di più un americano? È il sogno della sua terra che si realizza. Eppure la credibilità di Biden in questo momento è talmente bassa, la sua leadership così discutibile, che nemmeno i suoi per il momento gli hanno dato retta. Non mandiamolo in Europa a mani vuote, aveva esortato la speaker della Camera Nancy Pelosi. 

FATE LA CARITÀ
Che è un po' come chiedere la carità per un presidente finito ai margini della discussione di una politica in cui la fanno da padroni due centristi prima semisconosciuti come Joe Manchin e Kyrsten Sinema, diventati aghi della bilancia di un Senato senza maggioranza. «Non mettiamolo in difficoltà», lui che nel suo programma aveva l'ambizione di ribaltare la politica molto poco green di Trump e di fare degli Usa la guida per spianare la strada alle emissioni zero entro il 2050. Lo stesso Biden aveva fatto un appello disperato perché finalmente si arrivasse all'approvazione: «Ho bisogno di quel voto, votate, votate, votate». Aveva perfino rinviato la partenza per l'Europa ma l'approvazione, che lui attendeva proprio durante il volo per Roma, non è arrivata. Arriverà, forse, la prossima settimana, a Cop26 già iniziato. Uno smacco. D'altronde se secondo gli ultimi sondaggi di Gallup risulta essere il presidente più deludente del dopoguerra, quello che nei primi nove mesi ha perso più punti percentuali di consenso, ci sarà una ragione. E forse anche più di una.

 

Non c'è solo la politica estera, la questione dell'Afghanistan, il ritiro militare peggiore della storia pari solo a quello dal Vietnam, i soldati morti all'aeroporto di Kabul e la vendetta contro dei civili inermi. Nemmeno conta più di tanto la questione della guerra tra dem sull'incrocio del piano infrastrutture con quello per il welfare e il green di cui abbiamo parlato. Quella è piuttosto una conseguenza. Né la lotta al Covid, né le promesse tradite sull'immigrazione, le frustate al confine ai rifugiati. C'entra piuttosto che gli Usa stanno facendo più fatica del previsto, che il Pil non cresce abbastanza, che i posti di lavoro crescono molto meno delle attese. Che con Trump, al netto del Covid, le cose andavano molto meglio.

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