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Enrico Letta, il vero nemico è Giuseppe Conte: così il "nuovo Ulivo" va a sbattere contro i grillini

Fausto Carioti
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Enrico Letta deve imbarcare tutto ciò che va da Carlo Calenda all'estrema sinistra. Solo così il suo "nuovo Ulivo", che in realtà è una "nuova Unione" (l'accozzaglia prodiana nata nel 2004 e defunta nel 2008 dentro cui c'erano tutti, dall'Udeur a Rifondazione, passando per i manettari di Antonio Di Pietro e i garantisti di Emma Bonino), può avere qualche speranza di vittoria alle elezioni politiche. È una brutale questione di numeri. Le intenzioni di voto per Pd, M5S e Articolo 1 (il partitino di Roberto Speranza), sommate, non arrivano al 38%.

 

 

Mentre Fdi, Lega, Forza Italia e le sigle minori del centrodestra, insieme, sono sempre lì, attorno al 48%: una massa d'urto in grado di conquistare la grande maggioranza dei 222 collegi uninominali (su 600 seggi da parlamentare) previsti dall'attuale sistema elettorale. A meno che, appunto, il segretario del Pd non riesca a coalizzare il "resto del mondo" contro i suoi avversari, ricorrendo a tutto l'armamentario, a partire dagli appelli in nome dell'europeismo e dell'antifascismo. Come ha già iniziato a fare. È qui che il progetto di Letta s'infrange sul suo principale alleato: Giuseppe Conte. Il quale ha un conto personale aperto con Matteo Renzi e sa che l'avversione per il leader di Italia viva e per Calenda è uno dei pochi tratti identitari rimasti ai Cinque Stelle.

Nonché l'unico modo per dimostrare a chi li votò nel 2018 che, sebbene diventati la ruota di scorta del Pd, non sono disposti a ingoiare tutto ciò che viene proposto dal Nazareno. Conte dà anche per sicuro (e qui è difficile dargli torto) che Alessandro Di Battista ed altri fuoriusciti dal movimento si presenteranno alle Politiche con una loro lista, che avrà l'obiettivo di rubare quanti più voti è possibile al M5S governativo e normalizzato. È preoccupato di coprirsi su quel fianco, quindi, e non vuole che Di Battista faccia campagna elettorale dicendo alla base grillina che votare per i Cinque Stelle equivale a votare per Renzi e Italia viva, come inevitabilmente avverrebbe se le due sigle fossero alleate all'ombra del Pd. Anche per questo, l'ex avvocato del popolo ha promesso ai suoi parlamentari, già frastornati dall'esito delle amministrative, che «mai con Renzi e mai con Calenda».

 

 

Così facendo, però, Conte finisce per portare acqua al mulino del partito di Mario Draghi, l'"usurpatore" che gli ha tolto palazzo Chigi. Il premier non ha alcuna intenzione di diventare il capo di una sigla politica, ma ha già fatto capire, a chi gli ha detto di voler lanciare un progetto "ispirato" al suo programma di governo, che lui non ha nulla in contrario. Si spiega anche così la sortita del ministro forzista Renato Brunetta, il quale ha proposto un'alleanza «tra popolari, liberali e socialisti», che avrebbe proprio Draghi come punto di riferimento. Un obiettivo incompatibile con la larghissima coalizione sognata da Letta e, almeno per ora, con la volontà dello stesso Silvio Berlusconi. Ma che ha in Conte - coi suoi veti - un involontario alleato: se Renzi e Calenda non possono allearsi col Pd, dovranno necessariamente guardare in direzione di Brunetta, dei ministri di Forza Italia e degli altri centristi inquieti. E il "brand" Draghi è destinato a restare di moda ancora a lungo, comunque vada la partita per il Quirinale. 

 

 

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