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Mario Draghi senza Matteo Salvini? Diventerebbe il leader dei giallorossi: ecco perché la Lega è necessaria

Mario Draghi

Fausto Carioti
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Appartengono a due mondi lontani e lo sanno pure loro. Matteo Salvini non voleva entrare nel governo dell'europeista Mario Draghi. Lo convinsero Giancarlo Giorgetti, Silvio Berlusconi e i presidenti delle associazioni d'impresa del Nord. Il premier rimase spiazzato. Si aspettava una maggioranza formata da Pd, M5S, Italia viva e Forza Italia, la stessa che aveva eletto Ursula von der Leyen presidente della commissione Ue, e si trovò in casa uno che andava in tv a dire che «l'euro non è irreversibile». Lo accolse gelido, avvertendolo subito, in Senato, che «sostenere questo governo significa condividere l'irreversibilità della scelta dell'euro». La situazione non è poi migliorata granché.

 

«Se Draghi ci vuole fuori dalle palle, lo dica chiaro e tondo», commentava ieri uno sconsolato leghista di governo, non riuscendo a spiegarsi in altro modo perché quello insista così sulla revisione del catasto, che non porterà (parole sue) un soldo allo Stato prima del 2026. Però è di convenienza che i due debbono ragionare, non di affetti. Che otterrebbe Salvini uscendo dal governo? Lascerebbe la riforma del fisco e tutti gli altri dossier presidiati dai soli forzisti. Seguirebbe l'inevitabile massacro dei contribuenti (proprietari di casa e non solo) da parte dell'asse Pd-M5S. Il recupero dei consensi, viceversa, sarebbe tutt' altro che sicuro: non andò così quando la Lega fece cadere l'esecutivo gialloverde, e niente garantisce che oggi sarebbe diverso. Pure Draghi ha ottimi motivi per proseguire la convivenza. L'esempio è la riforma della giustizia firmata da Marta Cartabia.

 

 

 

 

Un intervento modesto, ma già il fatto che cancellasse gli obbrobri sulla prescrizione voluti da Alfonso Bonafede aveva spinto i Cinque Stelle a ribellarsi. Il "me ne frego" di Draghi fu possibile solo grazie all'ampia base parlamentare che lo sorregge. Fare sentire la Lega una sgradita anomalia e spingerla fuori dalla maggioranza lo renderebbe, invece, dipendente da ogni fazione o partitino. Diventerebbe il premier dei giallorossi, per la gioia di Enrico Letta e Giuseppe Conte. Il capo di un governo geneticamente incapace di riformare alcunché. A parte il catasto e le aliquote delle patrimoniali, s'intende. 

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