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Mario Draghi, la "grande manovra" alle sue spalle: retroscena, cosa cambia dopo il voto. E Carlo Calenda...

Mario Draghi

Fausto Carioti
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La prima conseguenza del voto, al momento, è solo una suggestione diffusa tra i partiti, un seme messo nel terreno: se anziché la legge elettorale attuale ci fosse un sistema proporzionale, che non costringe a fare alleanze purché siano, oggi una vasta area ragionerebbe su come sganciarsi dalla destra e dalla sinistra per iniziare un nuovo tipo di gioco. È quella formata da Forza Italia, Carlo Calenda, Matteo Renzi e i suoi, Giovanni Toti, Luigi Brugnaro, l'area "liberale" del Pd guidata da Andrea Marcucci. Troppo pochi per pretendere di governare il Paese, abbastanza per essere decisivi, il giorno in cui riuscissero a fare blocco. Se ne riparlerà, la riscrittura della legge elettorale converrebbe a molti. Il sistema proporzionale miete consensi nei Cinque Stelle, nel Pd, nei berlusconiani e tra i centristi e nemmeno Matteo Salvini, ieri, se l'è sentita di bocciarlo. Peraltro, è l'unica riforma che il governo lascerebbe fare al parlamento senza metterci bocca. La seconda conseguenza è una certezza: Mario Draghi adesso è più forte. Non solo è diventato un punto di riferimento politico, ma tutti quelli che potevano creargli problemi sono stati ridimensionati dagli elettori.

Brutalmente, in alcuni casi. Giuseppe Conte, innanzitutto. Arrivato alla guida dei Cinque Stelle, l'ex avvocato del popolo si era messo in testa di diventare il grande avversario del presidente del consiglio. Meditava di spostare il suo partito (o almeno i parlamentari pronti a seguirlo) all'opposizione, provocare elezioni anticipate, imporre al Pd un prezzo salato per l'alleanza, in termini di candidature e programma di governo. Strappi che si possono fare quando sei forte, non quando sei ridotto come il M5S ora: umiliato e fuori dai ballottaggi a Roma e Torino, le due metropoli in cui ha governato sino a ieri, inesistente a Milano come in tutto il Nord. Vince solo, si fa per dire, dove accetta di fare il cespuglio del Pd. Il modo in cui gli elettori hanno reagito al simbolo del M5S sulle schede vale anche da monito ai parlamentari pentastellati: le probabilità che questa legislatura sia per loro l'ultima sono altissime, conviene stare buoni e godersela sino in fondo.

 

 

Assieme ai sogni ribelli di Conte naufraga il suo grande sponsor dentro il Pd: Goffredo Bettini, lo "stratega" che dal palco della festa del Fatto Quotidiano aveva consigliato a Enrico Letta di liberarsi al più presto del governo, portare Draghi al Quirinale e provocare le elezioni anticipate puntando tutto «sull'asse Pd-M5S-sinistra, l'unica possibilità per poter competere con la destra». Misurato sul campo il valore dell'alleato, Letta ha capito che gli conviene fare l'esatto opposto. Così ieri si è precipitato a dire che il voto per il Pd è stato un voto in favore del governo e si è curato poco di Conte e dei Cinque Stelle, preferendo dedicare le proprie arti di seduttore a Calenda, «interlocutore della convergenza futura» alla quale punta il Pd (quello stesso Calenda che pochi giorni fa i democratici avevano bollato come «candidato di destra»). Certo, al Nazareno corteggiano l'ex ministro perché sperano che aiuti Roberto Gualtieri nel ballottaggio, ma è evidente pure la voglia di aprire un altro forno, che guardi al centro, anziché al M5S e a Leu.

 

 

Sul fronte opposto il centrodestra paga la scelta di candidati deboli, come Luca Bernardo a Milano, ma non solo. Il risultato è tale che occorrono più ragioni per spiegarlo, e una è probabilmente l'opposizione al Green pass fatta nelle ultime settimane sia da Fratelli d'Italia, partito d'opposizione, che dalla Lega, partito di governo. La risposta degli elettori è stata chiara e Salvini pare averla capita. Ieri ha detto che «se qualcuno, Cinque stelle o altri, usa questo voto per abbattere il governo di unità nazionale, fa qualcosa di irresponsabile». Messaggio rivolto anche ai più barricaderi dei suoi, quelli dell'area di Claudio Borghi e Alberto Bagnai: il capo della Lega non ha alcuna intenzione di seguire Fdi all'opposizione. Del resto, anche se Giorgia Meloni esulta sostenendo che il suo è ora «il primo partito del centrodestra», il risultato di Enrico Michetti a Roma, col 31% dei voti, appena 3 punti in più di Roberto Gualtieri, è inferiore alle attese e non lo mette certo al sicuro in vista del ballottaggio. C'è un solo partito che nel centrodestra può sorridere, ed è Forza Italia. Non che abbia fatto chissà che, ma il risultato incassato in Calabria dal suo capogruppo Roberto Occhiuto è ottimo e il moderato Roberto Dipiazza, sindaco uscente di Trieste, ha buone probabilità di essere confermato al ballottaggio.

 

 

Il partito di Silvio Berlusconi è quello che più si era speso in favore del Green pass e dei provvedimenti del governo Draghi, ed è convinto che gli elettori abbiano apprezzato la scelta. Poco più a sinistra degli azzurri c'è Calenda che, sebbene quarto a Roma, vuole usare il suo 18% di voti per costruire un'area con lo spirito «riformista e pragmatico» tipico di Draghi. C'è Renzi, draghiano ante litteram, che conta i nuovi sindaci di Italia viva e scopre che sono più di quelli dei Cinque Stelle, e fa notare a Letta che senza i suoi voti non avrebbe potuto vincere a Siena. Il partito di Draghi, insomma, non c'è e non ci sarà mai. Il diretto interessato nemmeno ne vuole sentire parlare. Tutt' al più, se glielo proporranno con le dovute garanzie, acconsentirà a farsi candidare per il Quirinale. Ma ieri si è capito che c'è un nuovo spazio politico, a livello nazionale, per chi, anziché progettare attentati contro il governo, si mette sulla scia del premier. E c'è già una folla pronta ad occuparlo. 

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