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Mario Draghi, bomba politica da Palazzo Chigi: "Si è stufato di trattare". Filtrano voci, "ribalta" il Parlamento

Fausto Carioti
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Parola di ministro draghiano: «Mario Draghi è un uomo paziente, abituato alle trattative. Però si è stufato. Vedrete». Si è visto, già ieri. Il presidente del Consiglio è convinto che i partiti della maggioranza non abbiano capito la gravità del momento. Guarda ciò che accade nei loro ranghi, legge le parole dei loro leader e vede che, di quella parvenza d'unità d'intenti che c'era all'inizio, è rimasto poco o nulla. Come se quelli si fossero convinti che la parte più difficile sia già stata fatta, suggellata dal semaforo verde di Bruxelles al Piano di ripresa italiano, e dunque adesso si possa ricominciare con l'andazzo di prima. Ossia litigi, personalismi, smarcamenti dei partiti verso il governo e delle fronde interne verso i capi partito, tradimenti degli accordi presi. Tutte cose che costringono i ministri a mediazioni estenuanti e frenano l'esecutivo mentre - inutile dirlo - Draghi pensa che la parte più dura debba ancora arrivare. E se già adesso è così, figuriamoci cosa potrà accadere dal 3 agosto, quando inizierà il semestre bianco che precede l'elezione del presidente della repubblica, durante il quale le Camere non potranno essere sciolte e la tendenza al disordine avrà ancora meno vincoli. Il discorso vale innanzitutto per i Cinque Stelle.

 

 

 

Il voltafaccia sulla riforma della giustizia, contrattata dai ministri del movimento con Marta Cartabia e sconfessata l'indomani dai loro parlamentari, ha rappresentato per il premier un punto di non ritorno. Pure la guerra quotidiana che stanno facendo al ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, è vista come il riflesso di pulsioni politiche tribali che mettono a rischio il rispetto degli accordi siglati con la Ue. Anche negli altri partiti, peraltro, cominciando dal Pd di Enrico Letta, Draghi vede segnali che non gli piacciono. Si cambia, quindi. Lo strumento è quello di sempre, il più efficace che i regolamenti mettano nelle mani di chi governa: la questione di fiducia. Se sono intelligenti, i parlamentari capiscono che il pugno di ferro di Draghi è un ottimo alibi dietro cui trincerarsi; se non ci arrivano, amen. Così ieri, al Senato, si è votata la fiducia al decreto "Sostegni bis", che prevede proroghe fiscali e aiuti a fondo perduto alle imprese: ovviamente passata con una maggioranza schiacciante, 213 sì e 28 no. Si replica già oggi: nell'altro ramo del parlamento va in scena la fiducia al decreto "Semplificazioni bis", primo dei provvedimenti necessari alla realizzazione delle opere contrattate con la Ue. L'esito dello scrutinio è scontato, ma qualche piccola sorpresa dovrebbe esserci. Tra i Cinque Stelle, infatti, molti sono contrari a quel testo, che rende più rapida la concessione dei permessi per costruire inceneritori e rigassificatori. E almeno uno dei deputati del M5S, Giovanni Vianello, è intenzionato a votare "no", mettendosi fuori dalla maggioranza.

 

 

 

"Scremature" che non turbano Draghi. Il quale, nella riunione di gabinetto di ieri, ha chiesto e ottenuto (senza alcuna obiezione dei presenti, ministri del M5S inclusi) l'autorizzazione a mettere la fiducia sul testo della riforma della giustizia concordato l'8 luglio. Quello che, secondo Giuseppe Conte, il M5S «non può permettersi» di votare, perché cancellerebbe «migliaia e migliaia di processi». Potrà essere cambiato, hanno spiegato Draghi e Cartabia, solo mediante miglioramenti tecnici condivisi da tutte le forze politiche. Come dire: o il M5S trova l'accordo con gli altri per un ritocchino, oppure dovrà decidere se stare dentro o fuori dall'esecutivo. L'equivalente di una bomba atomica parlamentare sganciata su Conte, Alfonso Bonafede e il resto dell'ala antigovernativa del M5S. Nonché un avvertimento per Letta e gli altri: chi fa il gioco del cerino con Draghi, si brucia le dita. 

 

 

 

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