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M5s, tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte la tregua è già finta: il retroscena che cambia il quadro in Parlamento

 Conte con Grillo

Fausto Carioti
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Ci sono due ragioni che rendono la tregua tra Giuseppe Conte e Beppe Grillo una barzelletta, ose si preferisce un esercizio di cinismo sulla pelle del M5S (affari loro) e del Paese (affari nostri, invece). In ogni caso, qualcosa che non può durare. La prima ragione è ciò che è stato detto. Non tutte le parole sono pietre, ma alcune sì. Lasciano il segno sulla carne, che è la prima materia di cui è fatta la politica (le idee, per chi ce l'ha, vengono dopo). Le parole dette da Grillo a Conte appartengono a questa categoria ed erano definitive, senza possibilità di appello o fraintendimenti. Il 29 giugno Grillo ha messo per iscritto che Conte «non potrà risolvere» i problemi politici del movimento, perché «non ha né visione politica, né capacità manageriali. Non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione».

 

 

 

Mettersi nelle sue mani è come pensare di «poter avere la pasticca che farà credere a tutti che i problemi sono spariti e che dia l'illusione (almeno per qualche mese, forse non di più) che si è più potenti di quello che in realtà si è davvero, pensando che Conte sia la persona giusta». Del resto Conte, il giorno prima, aveva detto che per il M5S «serve una leadership solida», ossia quella che Grillo non è in grado di garantire, e che «una diarchia» tra loro «non sarebbe funzionale». Sugli insulti che i due si sarebbero scambiati in privato o tramite portavoce, meglio sorvolare. La soluzione che i sette "saggi" (Luigi Di Maio, Roberto Fico e altri) hanno rabberciato riesce a contraddire tutto ciò che i due hanno detto. Fa di Conte (quello privo di visione politica, capacità manageriali eccetera) il presidente in pectore del movimento. E lo obbliga a convivere con un «custode dei valori», ovviamente Grillo, che avrà il potere di intervenire su Conte e i suoi se si azzarderanno a deviare dalla retta via, proponendo persino la loro espulsione: la «diarchia» alla quale l'ex premier aveva giurato che mai si sarebbe sottoposto.

 

 

 

Nessuno dei due ha fiducia nell'altro, le cicatrici delle offese sono profonde e non possono essere cancellate. Un accordo all'insegna della menzogna e del risentimento, quindi: il presupposto perfetto per un fallimento. L'altra tara del loro trattato di tregua riguarda le cose che, al contrario, non sono state dette. Un paio su tutte: la giustizia e la Cina, il grande sponsor di Grillo nei confronti del quale Conte, preoccupato di non sfigurare agli occhi di chi lo osserva da Washington, ha fatto sapere di nutrire un forte imbarazzo. Chi decide su questi argomenti: il capo politico, ammesso che davvero si possa chiamare tale, o il garante dei valori, visto che la politica estera, e soprattutto la giustizia, dovrebbero essere incise nel dna del movimento? La questione va oltre la rivalità interna tra i due, perché riguarda la tenuta del governo. Conte, spalleggiato da Alfonso Bonafede e altri, è determinato a bloccare, o quantomeno stravolgere, quella riforma della prescrizione firmata da Marta Cartabia che lui reputa una «anomalia italiana» e che invece Di Maio, Stefano Patuanelli e gli altri ministri pentastellati hanno votato a palazzo Chigi su indicazione di Grillo, promettendo a Mario Draghi che, in parlamento, il loro partito avrebbe proposto solo «limitate correzioni tecniche» al testo. La tregua interna al M5S, insomma, pare avere un unico, grande pregio: consentire al movimento di non sfasciarsi adesso, il che gli permette di mantenere salda la presa sulle poltrone ministeriali e arrivare più o meno integro al 3 agosto. Quel giorno inizierà il semestre bianco, durante il quale Sergio Mattarella, qualunque cosa accada, non potrà sciogliere le Camere. Il periodo perfetto per chi vuole regolare i conti dentro al M5S, con Draghi e con la Cartabia, senza ritrovarsi disoccupato troppo presto.

 

 

 

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