Giovanni Orsina sulla fusione tra Lega e Forza Italia: "Ecco perché converrebbe anche a Giorgia Meloni"
Di libri sull'antipolitica e il populismo son pieni gli scaffali delle librerie. E di solito lì restano, anche perché tutti uguali, scritti con la stessa smania di delegittimare l'avversario: ieri Berlusconi, oggi Salvini o Meloni. L'ultimo arrivato, "Antipolitica. Populisti, tecnocrati e altri dilettanti del potere", è invece una bella sorpresa. Lo ha scritto Giovanni Orsina, docente di Storia contemporanea e direttore della School of Government della Luiss, insieme al giornalista David Allegranti, che lo intervista. La definizione che dà senso a tutto il discorso arriva alla fine del libro: «L'antipolitica è la protesta vana e rabbiosa contro l'assenza di alternative alla rassegnazione. La politica è moribonda o forse già morta: non siamo disposti a darle quel che le servirebbe per risorgere, o forse non possiamo proprio più darglielo, ma ci manca terribilmente. E la puniamo scaricandole addosso la frustrazione generata da questa contraddizione». I giudizi che sorprendono non mancano, soprattutto sul centrodestra. Al quale Orsina, in questa intervista, spedisce un avvertimento: se qualcuno pensa di mandare Mario Draghi al Quirinale per avere elezioni anticipate, rischia di restare deluso.
Il passaggio del libro che più colpisce è quello su Giorgia Meloni. Lei scrive che «per l'opinione pubblica moderata, centrista o di centro -sinistra, quella che troviamo rappresentata nei media mainstream, siccome Meloni è sovrani sta ed euroscettica, ipso facto dev'essere pure populista e antipolitica. Ma non è così. Non saprei, anzi, da quale punto di vista la si possa definire antipolitica». Come definisce, allora, la Meloni e il suo partito?
«Li definisco nazional-conservatori. Una posizione politico-ideologica non soltanto chiaramente delineata, ma anche molto classica, ose si preferisce vecchia. Soprattutto, una posizione che dà grande importanza alla politica: non propone di eliminarla, attenuarla, o farla fare a dei non -politici».
Altro discorso è se Meloni sia populista.
«Su questo si può discutere. La cifra del populismo è l'"invenzione" di un popolo unito che si contrappone alle élite, e questo nella retorica di Meloni c'è. Ma l'antipolitica, direi proprio di no».
Così facendo, Fratelli d'Italia ha raggiunto il 20%. Può salire ancora?
«Bisognerebbe disporre di dati disaggregati affidabili, però è possibile ipotizzare che al Sud Meloni sia più vicina al 30% che al 20, quindi già molto alta, e che al Nord le sue capacità espansive siano limitate dalla presenza della Lega. Se queste due premesse tengono, allora FdI potrebbe essere vicina al suo tetto. Ma il condizionale resta d'obbligo».
Facciamo un gioco: tra qualche tempo Fdi è il primo partito, la Lega è distanziata di due o tre punti. Che si aspetta da Matteo Salvini, a quel punto?
«Che cerchi di tenere l'iniziativa politica, che si sforzi di restare al centro dello spazio comunicativo pubblico. Ma che non defletta dalla strada del sostegno al governo Draghi e del rapporto con Forza Italia. A meno di imprevisti, non mi pare che ci sia spazio politico, per la Lega, per cambiare nuovamente direzione. Almeno fino all'elezione del Capo dello Stato, ma forse anche dopo».
Sorprende pure il giudizio sulla Lega, che secondo lei è «contenutisticamente e strutturalmente iper-politica sia nella versione Bossi sia in quella Salvini». In parole povere?
«Sia la Lega di Bossi sia quella di Salvini, pur sfruttando parole d'ordine e gesti antipolitici, non hanno affatto proposto che lo spazio della politica fosse ridotto in modo strutturale e permanente, come ad esempio proponeva Berlusconi. Stiamo parlando di due politici di professione, alla guida di un partito molto "vecchio" per il suo radicamento sul territorio, che chiedono un potere pubblico presente ed efficace».
Il sovranismo non è quindi una forma di populismo?
«Di certo il sovranismo non è anti politico. Al contrario, propone di restituire spazio alla politica ridando forza allo Stato nazionale, ossia al luogo "classico" della politica. Dopodiché, può utilizzare argomenti e retoriche che in genere vengono associati al populismo. Fra cui, appunto, l'idea che vi sia un popolo buono e unito al qua le si contrappongono delle élite malvagie».
Ci sono le basi per una federazione tra Lega e Forza Italia?
«Restano ancora tanti nodi da sciogliere, differenze e distanze che andrebbero gestite e mediate, al di qua e al di là delle Alpi, ma a mio avviso sì, le basi ci sarebbero. Basti pensare alla tradizionale vocazione produttivi sta e nordista di entrambi i partiti».
Forza Italia sta con la Merkel, Salvini sta con Orban: la collocazione europea non sarebbe un problema?
«Potrebbe esserlo, ma la pandemia ha cambiato profondamente il quadro: oggi l'antieuropeismo non ha più senso. Naturalmente, nel futuro anche prossimo le cose potranno cambiare di nuovo. Oggi, però, penso che nemmeno l'Europa sia un problema insormontabile nel dialogo fra Forza Italia e la Lega».
A chi servirebbe davvero una simile federazione? A Berlusconi? A Salvini? O alla Meloni, la grande esclusa?
«Avrebbe vantaggi per Berlusconi, cui restituirebbe forza politica, e per Salvini, cui darebbe legittimazione. Ma potrebbe danneggiare entrambi alle urne, se la federazione dovesse raccogliere meno voti di quanti non ne raccolgano separatamente i due partiti. In questo caso è ben possibile che una parte dell'elettorato leghista, quella più arrabbiata, si sposti su Fratelli d'Italia».
Semplificando: nel Palazzo la federazione potrebbe favorire Berlusconi e Salvini, nel Paese la Meloni.
«Semplificando, sì. I dividendi nel Palazzo però si incassano subito. Invece il Paese potrebbe andare alle urne fra due anni, e chissà da qui a ventiquattro mesi l'opinione pubblica in che direzione si sarà mossa, volubile com'è».
Il partito unico di centrodestra è una vecchia idea di Silvio Berlusconi. Crede che si possa fare adesso?
«Sul terreno ideologico-politico lo si potrebbe fare senz'altro: fra i tre partiti le differenze non sono affatto incolmabili. Di nuovo: i problemi principali mi pare siano sul terreno euro peo e internazionale, ma lì la situazione è molto fluida, ci sarà spazio per ripensare e rinegoziare. A ogni modo, la politica ha poco a che fare con la logica, e pure con l'ideologia».
Da Nicola Zingaretti a Enrico Letta. Cambiano i leader, ma il Pd è sempre quello: accoglienza degli immigrati, legge Zan, rieducazione forzata di chi dice «frocio» e «negro». E il Babau dell'uomo col fez ogni volta che qualcuno, a destra, prende troppi voti. Colpa dei suoi capi o è proprio la sinistra che non ha più nulla di nuovo da dire?
«Temo che il problema sia politico-culturale, e non soltanto italiano. Negli ultimi cinquant'anni - fra i processi di globalizzazione da un lato e l'iper-individualismo dall'altro - siamo entrati in una fase storica nuova, ricchissima di opportunità, ma anche di pericoli. Nell'ultimo decennio i pericoli si sono fatti evidenti. Ma la cultura progressista, che a questa fase nuova si era adattata diventandone alla fine un'accesa sostenitrice, non è riuscita a correggere il tiro per rimettersi in armonia col clima spirituale del momento».
Un'analisi "alta". La conseguenza pratica?
«La conseguenza pratica è che la sinistra continua a proporre le stesse ricette che una parte importante dell'opinione pubblica, spaventata, ha rifiutato. E più quella le rifiuta, più la cultura progressista insiste, più l'opinione pubblica guarda altrove. Un circolo vizioso micidiale».
Il sogno di Giuseppe Conte, costruire un movimento Cinque Stelle senza Beppe Grillo, pare già fallito. E una logica forse c'è: può esistere un M5S senza il profeta del vaffanculo?
«La risposta breve è: no. IlM5S non è stato soltanto il vaffa, ma il vaffa ne è stata una componente essenziale. La risposta più lunga è sì, potrebbe esistere, ma dovrebbe diventare completamente differente da quel che è stato finora. Una cosa molto difficile da immaginare, al momento».
Facciamoli noi, i populisti: ha mai l'impressione che i leader politici in fondo siano tutti uguali, pronti a cavalcare gli slogan dell'antipolitica ogni volta in cui devono arruffianarsi i voti degli elettori?
«Assolutamente sì. Pensiamo al compassato Enrico Letta con la felpa di Open Arms: non il contrario di Salvini, ma Salvini al contrario. La comunicazione politica oggi esige slogan e semplificazione. Ed esige la delegittimazione della politica: non scordiamo che la Camera ha approvato il taglio dei parlamentari con 553 voti favorevoli, 14 contrari e 2 astenuti...».
L'unico diverso è Draghi, che non è un politico, ma conosce la politica. Il suo trasloco al Quirinale sarebbe davvero sinonimo di elezioni anticipate? O è un'illusione del centrodestra, spedirlo lì e andare subito al voto?
«La gran parte dei parlamentari non vuole sentir parlare del voto anticipato. Se dovessero convincersi che l'elezione di Draghi equivale al ritorno alle urne, non lo voterebbero mai. Per questo comincio a pensare che Draghi andrà al Quirinale soltanto se i parlamentari saranno rassicurati sul fatto che la sua ascesa non porterà alla fine della legislatura. Una sorta di accordo per il quale, fino al 2023, resta in carica un governo tecnico guidato da una persona di sua fiducia, per proseguire la realizzazione del Pnrr».