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Mario Draghi, solo leggi delega: dubbi sulle prospettive del governo, il premier mira al Quirinale

 Mario Draghi

Paola Tommasi
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La partita di Mario Draghi per il Quirinale è tutta qui: riuscire a farsi dare i soldi del Recovery Fund senza fare le riforme della giustizia e del fisco. A mettere a nudo il re, ieri, è stato Matteo Salvini. Ma è lo stesso Draghi che lo ha scritto nel Piano inviato a Bruxelles: sui due temi più caldi, il presidente del Consiglio si è impegnato ad approvare entro quest' anno solo delle leggi delega, cioè leggi con cui il Parlamento definisce le linee guida cui il governo deve attenersi nel fare le riforme. Perché queste entrino davvero in vigore, poi, servono i relativi decreti legislativi e l'esperienza insegna purtroppo che, soprattutto su giustizia e fisco, il tempo passa senza che se ne faccia nulla.

 

Un esempio proprio sul fisco: le leggi delega del 2003, del 2009 e del 2011, quando al governo c'era Silvio Berlusconi e ministro dell'Economia era Giulio Tremonti, rimaste nei cassetti del Mef. Quel che cambia oggi rispetto ad allora, e rende ancor più serio l'argomento che non può essere declassato a mera retorica anti-Salvini, è che adesso ci sono in ballo i fondi europei che la Commissione anticiperà all'Italia a luglio ma che potrebbe negare in futuro o addirittura chiedere indietro se la realizzazione di quanto scritto nel piano non procede a pieno ritmo. Tanto più che, con l'ipotesi di elezione di Mario Draghi al Quirinale, l'orizzonte del governo si accorcia.

Ma anche se così non fosse, il termine per realizzare le riforme, che si estende al 2026, è comunque disallineato rispetto alla fine della legislatura nel 2023. La maggioranza che verrà fuori dalle elezioni politiche vorrà/sarà in grado di portare a termine il lavoro impostato da Draghi o, come spesso avviene, smantellerà tutto? Non sarà per questo che il presidente del Consiglio ha garantito con il suo nome solo per le leggi delega, più facili da approvare, per poi lasciare la patata bollente dell'implementazione a chi arriverà dopo? Con la sua dichiarazione Matteo Salvini ha solo scoperto le carte. E forse le sue perplessità sono le stesse che in termini diversi ha posto il Capo dello Stato ai presidenti di Senato e Camera, Elisabetta Casellati e Roberto Fico, quando li ha convocati per sollecitare un'accelerazione sul Recovery Plan.

 

E anche Enrico Letta, che ieri ha di nuovo invitato Salvini a uscire dalla maggioranza, erroneamente pensando di guadagnare popolarità attaccando il capo del Carroccio, nell'ultima direzione del Pd ha pubblicamente chiesto a Draghi di «dare una nuova missione alla maggioranza, che non può limitarsi a stare insieme per il Pnrr e i vaccini», così confermando che ad oggi le riforme non sono all'orizzonte. E se i partiti per i loro travagli interni mollano la presa nel governo, se il quadro generale continua ad essere complicato, tra malcontento della popolazione stressata dal virus e dalla crisi, la sfida già ardua del Recovery Plan diventa talmente impari che potrebbe veder fallire anche le persone più brave e competenti. E davvero addio riforme.

 

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