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Marta Cartabia esce allo scoperto: cancellare la riforma Bonafede, l'impegno con i deputati

Cartabia

Francesco Specchia
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Tralasciare i fronzoli da legulei. Eppoi, urge la ragionevole durata del processo; e basta con l'eccesso carcerario; e occorre resettare il Csm senza bisogno di prenderlo a fucilate; e l'ossessione della prescrizione passi in secondo piano. Marta Cartabia è stata una sorta di commendevole Margareth Thatcher della Corte Costituzionale -pugno di ferro in guanto di velluto-; e ora non si smentisce affatto, mentre illustra le suddette linee programmatiche del proprio ministero davanti alla commissione Giustizia della Camera.

La Guardasigilli nel proporre la sua linea d'azione (a cui, in buona parte, è legato il Recovery Fund: una giustizia pietrificata mangia 30/40 miliardi di Pil e mancati investimenti esteri per 140 miliardi) è ferma. L'esordio è, politicamente, assai astuto spiegando che «il lascito del precedente governo va verificato» tra ciò che «va salvato» e ciò che, invece, «va modificato e implementato»: la classica formula del "ringraziamento per il lavoro svolto", ché tanto adesso ci rimettiamo mano noi. Cartabia infatti, un attimo dopo, annuncia, per la prossima settimana, la presentazione di emendamenti ai testi già incardinati per le riforme, che i 5 Stelle ritenevano blindati. E spiega subito che la querelle tra garantisti e giustizialisti sulla riforma della prescrizione può risolversi con una sorta di pensiero laterale, cogliendo, in buona sostanza, due piccioni con una fava: «un processo dalla durata ragionevole di per sé risolverebbe il nodo della prescrizione relegandola a evento eccezionale. In questo ambito occorrerà valutare varie alternative presenti nel dibattito scientifico. Da tempo nella riflessione accademica si ragiona attorno ad altri strumenti». Ergo: prima serve riformare il processo, la prescrizione passa in secondo piano.

 

 

Prosegue, la ministra, sulla necessità di misure organizzative volte a «migliorare l'efficacia e l'efficienza della giustizia penale, in modo da assicurare la capacità dello Stato di accertare fatti e responsabilità penali in tempi ragionevoli, assicurando al procedimento penale una durata media in linea con quella europea, nel pieno rispetto della Costituzione, dei principi del giusto processo, dei diritti fondamentali della persona e della funzione rieducativa della pena». Poi è la volta, da giudice giudicante, della stoccata al ruolo dei pm tutelati dal suo predecessore: «C'è la necessità che l'avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano da strumenti mediatici per l'effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza». E aggiunge l'importanza di una «giustizia riparativa» basata davvero sul dettato costituzionale della rieducazione.

 

 

Cartabia spinge verso il superamento dell'idea del carcere «come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena non è la certezza del carcere, che per gli effetti desocializzanti che comporta deve essere invocato quale extrema ratio»; e rispolvera il vecchio concetto di restituire effettività alle pene pecuniarie, «in larga parte oggi inflitte e non sono eseguite». Per capirci, è l'esatto contrario del pensiero di magistrati come Davigo. E, se si pensa che c'è un parere reciso del Csm sulla legge di riforma Bonafede che violerebbe la Costituzione (specie nella parte che ridurrebbe il potere discrezionale dello stesso organo di autogoverno) e che Cartabia sarebbe tesa ad accoglierlo; bè, l'indirizzo del ministro appare chiaro. Cartabia, con eleganza, sta mandando in soffitta la gestione Bonafede. E la signora non dissemina illusioni. La giustizia in Italia è una brutta bestia. «Sarebbe sleale impegnarsi nel contesto attuale con programmi inattuabili, che alimentino invano le già alte aspettative». Senza perdersi nelle liti da cortile, insomma, si faranno poche cose ma essenziali.

 

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