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Zaia, Fontana e Fedriga governano, Pd e M5s hanno un piano per togliere potere alle regioni

Fausto Carioti
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Una maggioranza che non esiste nel Paese ha deciso di sfruttare ciò che resta della legislatura per riscrivere la Costituzione. Intendono dare più poteri allo Stato centrale togliendoli alle Regioni: guarda caso, proprio le amministrazioni nelle quali il Pd prende schiaffi da anni e dove i Cinque Stelle non hanno mai toccato palla. Se non riescono a comandarle loro, tanto vale svuotarle: il ragionamento è questo, da predoni delle istituzioni. Il Covid, anziché indurre pudore e farli concentrare sull'emergenza, ha fornito l'alibi perfetto. O almeno così credono. Sentite Paola Taverna, vicepresidente del Senato e massima esperta grillina della materia, in quanto ex segretaria in un ambulatorio di analisi cliniche: «Una delle cose che questa pandemia ci ha insegnato è che avere sistemi sanitari regionali diversi è stato un fallimento. La sanità deve essere una cosa sola da Nord a Sud». Ossia tutto regolato a Roma, dal ministero, anziché sul territorio, da chi lo conosce. Significa far diventare la sanità veneta come quella laziale se le cose vanno bene, altrimenti come quella calabrese. La statista pentastellata ha scritto una proposta di legge costituzionale firmata da tutti i suoi, nel cui preambolo lamenta le «significative discrasie territoriali» del sistema attuale («la Lombardia conta quasi 30.000 posti letto, la Sicilia 11.698») e «la notevole differenza della qualità delle prestazioni erogate». Dunque ristatalizzare e ricentralizzare tutto, così i lombardi imparano ad avere più posti letto dei siciliani.

 

 

 

Il vertice - Ma sono l'intera maggioranza e tutto il governo a pensarla in questo modo. Giuseppe Conte ha lanciato l'idea nel vertice di maggioranza dell'altra sera. Il segretario del Partito democratico gli aveva chiesto «un patto di legislatura». Ovvero una ragione pratica per andare avanti, senza la quale la coalizione non può reggere. E il presidente del Consiglio gliel'ha appena data: a Zingaretti, Vito Crimi, Matteo Renzi e Roberto Speranza ha proposto di riformare insieme la Costituzione, operazione che impegnerà l'intera seconda parte della legislatura e su cui nessuno di loro può obiettare, perché se c'è una cosa che hanno in comune è proprio l'impulso a far ingrassare lo Stato. Iniziando con la sanità, che è il piatto principale, ma senza limitarsi a quella. Di vero, nel loro ragionamento, c'è che caos e sovrapposizioni di competenze tra Stato e Regioni sono reali, perché la riforma del Titolo V della Costituzione fu fatta nel 2001, dal centrosinistra, con i piedi. Ma la questione potrebbe e dovrebbe essere risolta «andando in una direzione più autonomista, quasi federalista», come chiede il governatore della Liguria, Giovanni Toti. L'obiettivo dei giallorossi è invece quello opposto: riportare il centro di comando degli affari regionali nei palazzi della capitale, dove loro stessi hanno ancora qualche speranza di contare, soprattutto dopo che avranno approvato la riforma elettorale su cui contano per azzoppare il centrodestra.

«Una priorità» - Così Renzi dice che «cambiare i rapporti tra governo e Regioni», ovviamente a vantaggio del primo, «è una priorità». Il piddino Stefano Ceccanti ha pronta da mesi la proposta per inserire in Costituzione la «clausola di supremazia statale», che consentirebbe al governo di azzerare i poteri delle regioni qualora lo richiedesse «la tutela dell'interesse nazionale». Quanto a Roberto Speranza, nel libro che gli italiani non possono leggere ripete ogni tre righe che dopo il Covid occorre «riaffermare un'idea di sinistra a partire dai beni pubblici fondamentali e da un nuovo ruolo dello Stato». Il resto non lo dicono, e si capisce il motivo: assieme alla sanità dovrà essere "devoluto" allo Stato il denaro necessario a finanziarla. Sarà l'addio ufficiale, insomma, all'autonomia fiscale e a tutte quelle riforme che gli abitanti di Lombardia e Veneto avevano chiesto con i referendum del 2017. I soldi del Nord non resteranno al Nord, ma andranno in proporzione ancora maggiore al Sud. Col nobile scopo di appianare le «discrasie territoriali», che in realtà sono l'indice della qualità degli amministratori regionali e della popolazione che rappresentano.

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