Corrado Passera: "Dall'Europa arriveranno tanti soldi, non sprechiamoli e ridisegnamo il futuro"
Il banchiere a tutto campo tra fondi europei, Hight tech, lavoro., tasse e Alitalia
Viviamo in tempi interessanti. «Perché l'ho fatto? Mah...». Corrado Passera, scravattato, in maniche di camicia, fibrilla d'un entusiasmo che un po' ricorda il Jimmy Stewart banchiere etico della Vita è meravigliosa (un po'. Passera è meno etico, ma molto più ricco), sospira, e deglutisce un caffè. «Vede, in banca tutto si stava ridisegnando per le nuove tecnologie digitali, le nuove regole, l'osmosi tra settori. Quindi, armato di un progetto che era solo un Power Point nell'iPad, sono andato in giro a raccogliere i 600 milioni per cominciare. Abbiamo comprato una piccola banca, la Interprovinciale di Modena - grande come una filiale di Banca Intesa - per avere la licenza e da lì siamo partiti». Passera, nella sua ultima reincarnazione, ha fondato un istituto di credito, Illimity, che in 6 mesi, nel furore della crisi, ha prodotto utili per 15 milioni di euro col titolo in crescita del 9%, attivi da 3 miliardi di euro. Mentre mi bombarda di dati e istogrammi su quotazioni, fusioni e acquisizioni, mi indica dall'alto del suo palazzo, ex sede milanese di Amazon, la tromba delle scale su cui, in un vaporoso sguardo d'insieme, s' affacciano gli uffici dei suoi 550 dipendenti brulicanti di un attivismo onestamente innaturale.
Caro banchiere, questo è un alveare d'acciaio e plexiglas da cui si leva un ronzio d'idee, direbbe il poeta. Qua c'è la crisi, ma lei produce profitti e manager iperattivi. Perché?
«L'entusiasmo. Debbo frenarli. Ognuno di loro è venuto per contribuire a costruire la "sua" impresa. Ad un certo punto abbiamo dovuto addirittura introdurre delle regole perché non si esagerasse nello smart working. E sono tutti così: giovani e dirigenti collaudati, età media 37 anni, forti valori comuni in tutte e tre le divisioni, credito, distressed credit, banca digitale. Però non mi sono portato i "miei" dall'esterno, avrebbero fatto del male alla loro azienda».
L'ultima fatica è stata entrare al 50% nel capitale di Hype che è diventata una delle prime Fintech d'Europa.
«Sì, ma molti dei concorrenti sono più grandi ma non guadagnano. In quest' operazione ci sono invece forti vantaggi di scala e di scopo perché siamo per ora focalizzati sul mercato italiano dove Hype è il leader; possiamo attrarre molte ulteriori alleanze. Per questo ci siamo posti l'obbiettivi entro il 2025 di 3 milioni di clienti e 20 milioni di utile».
Passera, di lei si può dir tutto tranne che non riesca a annusare le svolte. Ora s'è fatto la banca per piccole e medie imprese. All'Olivetti nel passaggio informatica/telecomunicazioni, con Omnitel creaste start up da 15mila miliardi di vecchie lire. In Poste il cambiamento era da ente pubblico ad azienda. Perché il suo olfatto, oggi, l'ha portata a dichiarare sul Financial Times che il piano di investimenti infrastrutturali europeo doveva essere di 5000 miliardi, altro che i 750 miliardi del Recovery Fund?
«Competiamo con Usa e Cina che hanno bilanci federali di dimensioni enormi. Se non vogliamo fare la fine del vaso di coccio dobbiamo rispondere con investimenti federali europei almeno paragonabili, specie ora che per la prima volta abbiamo lo strumento di finanziamento degli eurobond. Certe infrastrutture, certe innovazioni, o le facciamo a livello europeo o non ci saranno mai i soldi dei singoli stati per attivarle, e rischiamo di essere tutti colonizzati. 5000 miliardi è il giusto ordine di grandezza dell'investimento, corrispondono ai 300 miliardi a livello nazionale. Se vuoi modificare l'andamento di un'economia non fai un'operazione da 1% del Pil, ma da 20% del Pil».
Passera, il suo sguardo ora passa dall'allegria dei bilanci allo spaesamento. Non mi dica che anche lei è preoccupato per la sottovalutazione della crisi dietro l'angolo: i licenziamenti, lo slittamento delle moratorie, le tasse da pagare, Pil a terra, crollo dei consumi, ecc.?
«Ovviamente. Siamo in un momento di grandi opportunità mai accaduto prima. Tra tutti i fondi europei, Next Generation Europe, Mes, i fondi strutturali: in tutto ci pioveranno almeno 300 miliardi, in parte addirittura a fondo perduto. Nessun governo e nessun Parlamento ha mai avuto una opportunità del genere per ridisegnare il futuro del Paese».
Ma?
«Ma è pur vero che sarà difficile spenderli, i soldi, se usiamo i vecchi modi».
La ministra De Micheli fa capire che forse non abbiamo gli uomini per farlo...
«Non lo credo, questo. Se accogliamo, con fini più o meno elettorali, i progetti proposti da ogni provincia, ogni regione, comune, non c'è speranza, si perderanno in mille rivoli come al solito. Ma se procediamo da una chiara visione complessiva - dall'alto in basso - e parliamo di motori veri da attivare, allora sì, possiamo portare lavoro e benessere strutturale agli italiani».
Cioè: pensiamo ad investire nelle infrastrutture, nella tecnologia, nel taglio del cuneo e non nei 660 progetti presentati dai singoli ministeri ed enti locali? Cioè fare, come dice Mario Draghi, "debito buono"; e spendere bene almeno 120 miliardi di fondi Ue nei prossimi due anni come avverte Gentiloni, sennò i finanziamenti, alla fine, ce li tolgono?
«Esatto. Alcune iniziative vanno fatte partire subito, le riforme strutturali possono migliorare la vita di tutti. Sennò facciamo le aiuole invece di fare l'alta velocità. Dato che la priorità è l'occupazione, dobbiamo scatenare le energie delle imprese virtuose, quelle che investono in innovazione, assumono, mettono soldi nel capitale e si mettono insieme. Lo si deve fare con fortissimi incentivi fiscali, e utilizzando meccanismi già funzionanti: superammortamenti, apprendistato, Ace. Molti di questi incentivi non porterebbero a esborsi immediati e si pagherebbero con la crescita sana dell'economia».
Mi pare una buona idea. Ne ha altre?
«Certo. Poi devi riprendere le infrastrutture fisiche, digitali ed energetiche e la difesa del territorio. E la Sanità, il Covid ha fatto emergere forti inadeguatezze anche in Regioni all'avanguardia. I 36 miliardi del Mes vanno presi tutti: sennò facciamo male al Paese. Tanto ci indebiteremmo lo stesso e questo debito è il meno caro con condizionalità accettabili. E poi ci sono le quattro riforme fondamentali per famiglie e imprese: welfare (con gli ammortizzatori sociali e politiche attive con l'uso intelligente anche di strutture private e senza questi centri per l'impiego), giustizia, burocrazia e istruzione: urge trasformare queste - mi viene da dire - zavorre in opportunità».
Sembra un manifesto politico. Dopo l'esperienza da ministro dello Sviluppo nel governo Monti e quella di Italia Unica, dica la verità: un pensiero al ritorno in politica?
«Ma figuriamoci. Sono talmente entusiasta dell'impresa che abbiamo creato che non mi passa neanche per la testa».
Suvvia, parlo di politica nel senso di cives, del senso civico. Quello le viene naturale. Le faccio un esempio sui problemi eterni che ci affliggono. Se le dico, appunto, "burocrazia"?
«Le rispondo che non la si vuole e non la si sa togliere. Il problema vero sono i costi indiretti della paralisi decisionale creata perché abbiamo affastellato un numero enorme di livelli decisionali con responsabilità sparse e nessuno risponde di nulla. Vero anche che le leggi le fa il Parlamento. Se dici al burocrate che ci vogliono 37 firme, lui esegue. Se la legge è stupida, la burocrazia si comporta in modo stupido, sennò gli arriva la Corte dei Conti».
Se le dico "riforma del fisco"?
«Le dico: meglio subito il taglio alle tax expenditures (la selva di circa 800 deduzioni e detrazioni, ndr). Non può essere fatto una alla volta, sennò chi subisce il taglio ti dice: perché io e non gli altri? Deve essere parte di un progetto più allargato che suddivide sacrifici e benefici in modo equo tra le classi sociali. E poi bisogna aver la forza di spiegare perché tagli, perderai un elettorato ma magari ne guadagnerai dell'altro».
L'unico che mi ricordo aver fatto una cosa del genere fu il cancelliere tedesco Gerhard Schröder. Che dopo fu trombato alle elezioni.
«Ha perso le elezioni ma ha fatto il bene del suo Paese».
Se le dico Alitalia? Lei nel 2008, come Banca Intesa, fu advisor dell'ennesima operazione di salvataggio (non riuscita).
«Veramente siamo arrivati a 50 milioni di perdite, ce l'avevamo quasi fatta. Comunque l'idea era quella di ristrutturarla per fonderci poi con AirFrance e tagliammo contratti non sostenibili dalla gestione pubblica. Poi la ristrutturazione non l'hanno portata fino in fondo, AirFrance si ritirò e vennero nuovi salvataggi. Sbagliando sia i partner sia le modalità. In Europa ci possono essere solo pochissimi grandi gruppi aerei. Noi non potremmo mai essere un gruppo globale. Con Air France è andata male? Rimane Lufthansa. Servirà una dote, ma sarà comunque inferiore alle perdite accumulate».
Lo scenario non è esaltante. Cosa pensa per i suoi figli, gli lascia l'azienda?
«Mia figlia grande fa la neonatologa, il secondo fa l'imprenditore negli alberghi di famiglia, e quelli di 8, 10 e 4 anni non hanno ancora scelto il loro destino. La morale, anche per loro, è che qui non si deve essere soltanto ottimisti, ma non si deve aver pace finché le cose cambino».
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