Stefano Bonaccini nuovo segretario del Pd? Il patto a due con Matteo Renzi
Politicamente parlando, Nicola Zingaretti non è mai stato un'aquila. Basta vedere il modo in cui, un anno fa, Matteo Renzi prima lo rivoltò come un calzino per costringerlo ad ingoiare il governo Conte 2, e pochi giorni dopo gli inflisse la più prevedibile delle scissioni. Il segretario del Pd è uno che gli eventi è abituato a subirli, non a guidarli. Il pugile suonato degli ultimi giorni, però, è un inedito persino per lui. I recenti attacchi scomposti sembrano presi dal repertorio delle Sardine (nel frattempo estinte come i dodo, e ci sarà un perché). Tipo quello secondo cui, se ci fosse un governo Salvini-Meloni, a causa dell'epidemia oggi avremmo le «fosse comuni sulle spiagge».
Parole attribuitegli ieri da un retroscena della Stampa, e dal segretario del Pd non smentite. O l'appello che da Collenuccio di Pesaro ha rivolto giovedì sera agli elettori marchigiani: «Salvate e difendete le Marche. In gioco ci sono le politiche di sviluppo. Ci saranno oltre 200 miliardi di euro di investimenti...». Chiaro il messaggio: volete i quattrini per tirare avanti? Votate per il mio candidato, Maurizio Mangialardi, così il governo centrale avrà un occhio di riguardo per voi. Baratti che ti aspetti da Luigi Di Maio sulla piazza di Pomigliano D'Arco, non dall'erede di Enrico Berlinguer. Segnali di disperazione da parte di uno che, dopo avere portato a Roma il Covid che si era andato a prendere sui Navigli di Milano, non ne ha più azzeccata una. Vero pure che le ragioni per disperarsi non gli mancano. Il 20 e il 21 settembre, assieme all'esito del referendum e al governo di sei grandi regioni, sarà in palio pure la sua testa. Però la ghigliottina gliela stanno allestendo compagni di partito e alleati, mica Salvini e Meloni.
L'ultimo contributo lo ha dato ieri Romano Prodi, rompendo il silenzio sul referendum per il taglio dei parlamentari: il fondatore del Pd ha scritto sul Messaggero che voterà No, fregandosene delle indicazioni di Zingaretti. E la voce del professore bolognese, tra gli eletti e gli elettori democratici, ha sempre peso. Così, se gli italiani approveranno la riforma della Costituzione, ci sarà un solo vincitore, e sarà Di Maio; se invece la bocceranno, Zingaretti avrà tradito la linea del suo partito (che tre volte in parlamento aveva votato contro quel taglio) per schierarsi coi perdenti. Al contrario di Prodi, Vincenzo De Luca e tanti altri. Le residue possibilità di sopravvivenza se le giocherà nei seggi delle regioni. Si parte da un vantaggio di quattro a due per la sinistra, e per lui non è una buona notizia. Perché in Veneto l'unico motivo di batticuore è se arriverà più in alto la Lega di Zaia o quella di Salvini. E in Liguria, dove Zingaretti ha fatto l'accordo con i Cinque Stelle per appoggiare un candidato antropologicamente grillino come il giornalista del Fatto Ferruccio Sansa, il forzaleghista Giovanni Toti veleggia sul 60% delle intenzioni di voto, contro il 34,4% del rivale (sondaggio Winpoll-Cise).
Mentre l'unico governatore del Pd che oggi pare blindato è il campano De Luca, del quale tutto si può dire tranne che sia un fedelissimo del segretario. E la tenuta della roccaforte toscana difficilmente basterebbe. Un quattro a due per il centrodestra, con Puglia e Marche che come prevedono molti sondaggi cambiano colore, sarebbe probabilmente il biglietto d'addio per Zingaretti, che da quando è in carica ha già perso Basilicata, Piemonte, Umbria e Calabria. Anche perché l'alternativa è pronta. Guarda caso, è l'unico governatore rosso confermato sulla poltrona dagli elettori, l'emiliano Stefano Bonaccini. Col quale Renzi, non da adesso, è tutto pappa e ciccia. Metterlo al posto di Zingaretti significherebbe ricomporre la scissione e provare a ripartire sotto la guida di uno che sinora ha dimostrato di avere cervello politico e poter vincere. Sensazione che il Pd di Zingaretti ha dimenticato.