Nicola Zingaretti, il peggiore dei peggiori: in un report, il disastro e l'umiliazione
La sinistra grillinizzata ha un grosso problema di consenso nelle Regioni e nelle città: da tempo non è più padrona negli enti locali; ma a leggere il sondaggio pubblicato ieri dal Sole 24 Ore si può ben parlare di disastri locali. Per capire l'aria che tira è sufficiente accorgersi che il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, che sarebbe anche segretario del Pd e quindi primo azionista del governo di Giuseppe Conte, si piazza all'ultimo posto in classifica (diciottesimo) preceduto da altri due colleghi della stessa area politica che hanno guidato due Regioni nelle quali si tornerà a votare a settembre: Michele Emiliano (Puglia) e Luca Ceriscioli (Marche). Questa è la zona retrocessione, un monocolore rosso sbiadito e perdente.
A metà classifica, più o meno stazionari, si piazzano Enrico Rossi (Toscana) e Vincenzo De Luca (Campania), presidenti di altre due Regioni attese dalla urne autunnali: in calo il primo e in leggera crescita il secondo, anche per via della recente sovraesposizione collegata alla pandemia. E a proposito di fenomeni mediatici, il solo governatore dem in salute sembra essere l'emiliano Stefano Bonaccini (quinta posizione), il quale non a caso sta dando segnali d'irrequietezza verso il Pd a trazione zingarettiana. E se poi occorresse un'altra conferma della situazione difficile in cui versa la leadership democratica, la si troverà immediatamente nella seconda classifica stilata dal Sole e che vede emergere al terzo posto il sindaco di Bergamo Giorgio Gori, uno che la segreteria l'ha già messa in discussione e vorrebbe anzi occuparla di persona. Prima di lui, al secondo e primo posto, Cateno De Luca (Messina) e Antonio De Caro (Bari), politici di centrosinistra ma lontanissimi dalle beghe di partito. Disastro M5S Tra le non-notizie degne di un certo rilievo ci sono poi i due fanalini di coda: l'ultimo della classe Leoluca Orlando (Palermo) e la pentastellata Virginia Raggi: sindaci a statuto speciale e ormai al di sotto del bene e del male. Fra disastri amministrativi e delusioni locali, Beppe Grillo può annoverare anche la torinese Chiara Appendino (novantasettesimo posto su 105). Con questi presupposti, in vista delle prossime scadenze elettorali, la navigazione della maggioranza giallorossa si fa sempre più instabile e perigliosa. Anche perché il centrodestra cede poco o nulla in termini di consenso.
Certo, c'è Attilio Fontana con la sua Lombardia che scivola al tredicesimo posto, perdendo 4,4 punti rispetto al giorno della sua elezione; ma poteva andare assai peggio, considerando la macchina del fango cui viene sottoposto quotidianamente dacché è scoppiata l'emergenza Covid-19. In compenso - e siamo ancora nel campo delle non-notizie di peso - in Veneto c'è Luca Zaia che gode di una popolarità imperiale: medaglia d'oro fra i governatori con un incremento del 20%, seguìto da altri due presidenti leghisti: Massimiliano Fedriga in Friuli e Donatella Tesei in Umbria. E in termini di crescita, subito dopo Zaia, torreggia il ligure Giovanni Toti: ottavo posto, con un +13,6 che lascia molto ben sperare per la vicinissima riconferma. Arriviamo così al punto di caduta più schiettamente politico. Premesso che i sondaggi sono composti da numeri largamente immaginari, l'impressione di fondo è che stia crescendo in forma esponenziale lo scollamento tra l'Italia reale e quella rappresentata in Parlamento. Il divorzio tra consenso e potere si aggrava ulteriormente se consideriamo la questione dal punto di vista delle aree geografiche. C'è un Nord ancora dinamico ma sempre più monolitico nel suo conservatorismo e nella manifesta insofferenza verso i Palazzi romani abitati da una nomenclatura priva di popolarità e di radicamento sociale. E un Centrosud frammentato e contendibile. Se fino a ieri era inevitabile giudicare passeggere ed evanescenti soltanto le esperienze di governo grilline, ora ci si accorge che vanno sgretolandosi anche le ultime rendite signorili e parassitarie dei postcomunisti italiani.
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Le ricadute sul governo, in condizioni di normale dialettica democratica, dovrebbero essere pesanti e celeri. Ma il populismo giallorosso ha dalla sua un discreto vantaggio strategico fondato su due elementi: 1) il perdurare dello stato d'eccezione collegato al timore pandemico, che comprime e deforma gli spazi espressivi del pluralismo; 2) l'assenza di un disegno nazionale alternativo e concorde da parte delle opposizioni di centrodestra, le quali si ritrovano a giocare una battaglia valida ma di retroguardia, di riconquista e di resistenza regionale, provinciale o municipale contro l'oligarchia stanziata a Palazzo Chigi.