Giorgio Napolitano, il "golpe" contro Berlusconi: la domanda a cui non può non rispondere
C'è un grande convitato di pietra, nella storia assurda del complotto giudiziario che nel 2013 avrebbe tolto di mezzo Silvio Berlusconi tramite una sentenza pilotata di condanna a 3 anni e 8 mesi per frode fiscale nel processo Mediaset Agrama. Questo convitato risponde al nome di Giorgio Napolitano, presidente emerito della Repubblica che allora risiedeva al Quirinale per il suo secondo mandato e da lì sorvegliava le sorti del governo di larghe intese guidato da Enrico Letta.
Ora, mentre il Cavaliere denuncia la ferita inferta alla democrazia diffondendo come prova l'audioconfessione scioccante ricevuta in limine mortis dal giudice Amedeo Franco (relatore della Corte di Cassazione), ulteriori indiscrezioni di parte berlusconiana rimettono nel cono di luce proprio Napolitano, il quale all'epoca avrebbe addirittura trattato con il legale dell'ex premier una exit strategy per evitare al condannato l'onta dei servizi sociali e l'estromissione per indegnità dal consesso politico convalidata da un voto parlamentare sull'utilizzo in forma retroattiva della famigerata legge Severino.
Nella circostanza, come del resto avevano adombrato anche i retroscena politici dell'epoca, il capo dello Stato si sarebbe spinto fino al punto di offrire un provvedimento di grazia in cambio di un'uscita dalla scena politica volontaria e ufficiale da parte del Cavaliere. L'offerta fu dichiarata irricevibile e, dal lavoro obbligato nel centro anziani di Cesano Boscone fino alla clamorosa rivelazione di oggi passando per altre infinite vicissitudini, sappiamo tutti come è andata a finire. Pur avendo smentito ufficiosamente sia l'ipotesi della trattativa sulla grazia - «queste speculazioni su provvedimenti di competenza del capo dello Stato in un futuro indeterminato sono un segno di analfabetismo e sguaiatezza istituzionale» - sia il suo ruolo di congiurato alfa nella precedente caduta del governo berlusconiano nel 2011 - «non ci fu nessun complotto sarebbe stato strano, se ci fosse stato un colpo di mano, che poi Berlusconi votasse a favore del governo Monti» - Napolitano è sempre stato indicato come il regista nemmeno occulto di ogni trama finalizzata all'abbattimento del signore di Arcore (che peraltro nel 2013 l'aveva appena rieletto al Colle).
È noto da sempre come l'ex dirigente migliorista del Pci abbia saputo navigare per decenni dietro le quinte della politica, senza mai esporsi in forma audace (lo stemma nobiliare immaginario affibbiatogli da amici e avversari era «coniglio bianco in campo bianco»), salvo poi stupire tutti per il decisionismo e l'assunzione integrale delle prerogative assegnate all'inquilino del Quirinale. L'apice di questo contegno fu raggiunto nel momento più difficile del mandato, si era sul finire del 2014, quando Napolitano si trovò costretto a deporre davanti ai giudici quale testimone della trattativa Stato-mafia. Il che avvenne dopo oltre un anno di accesissime polemiche intorno alla sua apparente indisponibilità a farsi ascoltare dagli inquirenti, e su insistente sollecitazione delle parti civili rappresentate da Salvatore Borsellino, fratello del giudice ucciso nella strage di via D'Amelio, e Sonia Alfano, presidente dell'associazione familiari vittime di mafia.
Al centro della contesa finirono anche i nastri contenenti alcune telefonate tra Napolitano e l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino, distrutte nel vecchio carcere dell'Ucciardone nell'aprile 2013 su ordine della Corte Costituzionale, ma sulle quali è gravata a lungo una caligine di sospetti ricattatori. Adesso, a distanza di quasi un decennio, Giorgio Napolitano è un privato cittadino novantacinquenne, insignito dalla Costituzione del laticlavio a vita avendo spalle una carriera onorata nelle istituzioni repubblicane. Ancorché ammaccato dalle ingiurie del tempo (un malanno cardiaco lo costrinse a un'operazione d'urgenza nel 2018), l'ex presidente conserva una lucidità sufficiente per non rimanere insensibile alle rivelazioni confidate dal giudice Franco al Cavaliere, fra le quali spicca questo virgolettato: «anche il presidente della Repubblica ha fatto sapere che è contento del fatto che avete deciso uniformemente a quello che ha detto il procuratore generale».
Se all'epoca della controversia sulla trattativa con la mafia in molti invocarono, non senza qualche ragione, la necessità che la ragion di Stato proteggesse la nostra più alta carica dal rischio di una vulnerazione fatale; oggi le cose stanno diversamente ed è lecito attendersi che Napolitano esca dal riserbo per rendere nota la sua versione dei fatti. Anche la più affilata delle smentite o delle precisazioni risulterebbe più gradita del silenzio.