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Stefano Bonaccini segretario Pd, il piano degli ex renziani: obiettivo, far fuori Nicola Zingaretti

Alessandro Giuli
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Di punto in bianco nel Partito democratico si è aperta la caccia a Nicola Zingaretti e alla sua segreteria: così, fuori stagione e fuori contesto, il sindaco di Bergamo Giorgio Gori ha sparato le prime salve a una certa distanza da Roma ma sapendo di trovare nella Capitale altri possibili congiurati. Queste le sue parole: «Vedo molti limiti nella conduzione dell'attuale Pd e per questo mi piacerebbe più concreto, più coinvolto a promuovere le riforme che servirebbero al Paese. E questa cosa deve anche trovare una nuova leadership e lo dico avendo molta simpatia e lealtà nei confronti dell'attuale segretario». Tanta è la simpatia per Zingaretti, che Gori ha provato anche a disegnare un immaginifico identikit del nuovo segretario: «Io sto bene a Bergamo, ma la nuova leadership può arrivare dagli amministratori locali».

 

 

E qui la pista conduce dritta al presidente emiliano Stefano Bonaccini che da settimane scalpita per ritagliarsi un ruolo nazionale (due giorni fa è planato a Roma), forte com'è della enorme visibilità pubblica derivatagli dalla riconferma a scapito dei leghisti e dalla pandemia di coronavirus. A di là dalla discutibile tempestività dell'intervento di Gori, a nessuno è sfuggita l'involontaria gaffe del sindaco bergamasco: assieme al segretario del Pd non si è accorto d'aver preso di mira il bisgovernatore della Regione Lazio, già presidente della Provincia romana. Il che gli è stato subito fatto notare, con una derisoria secchiata di ghiaccio, da uno dei maggiori azionisti del partito nonché ministro della Cultura, Dario Franceschini: «Ho letto questa interessante proposta di Gori che dice che al Pd serve un leader che sia un amministratore. Magari un presidente di Regione? Magari di una grande Regione? Magari che non venga nominato ma vinca le primarie con il 70%? Informo volentieri Gori che il segretario con queste caratteristiche l'abbiamo già e che il mandato di Zingaretti scadrà tra tre anni. Quindi porti pazienza e non apra inutili tensioni in un momento come questo».

GRANDI MANOVRE
Come dargli torto? La domanda andrebbe rivolta all'altro grande azionista, il vicesegretario Andrea Orlando, più cogitabondo e abbottonato in vista di un'eventuale successione a Zingaretti. Si sa che l'attuale segretario non va troppo a genio alla corrente degli ex renziani Lorenzo Guerini e Luca Lotti (Base riformista), i quali potrebbero giocare di sponda con Bonaccini per aprire le porte della cittadella dem al suo assalto. Ma perché muoversi proprio adesso? E con quante possibilità di riuscita, visti i fragili equilibri che tengono in piedi la Ditta? Premesso che la sinistra è maestra nel farsi del male da sola, meglio ancora se in circostanze impreviste, una possibile risposta alla prima domanda sta forse nel retroscena di cui ha dato conto ieri Francesco Verderami sul Corriere della Sera: se davvero il premier sta meditando di anticipare il ricorso alle urne nel 2021, in modo da candidarsi per un Conte-ter intestandosi la saldatura tra Pd e Movimento Cinque stelle, diventerà inevitabile un'accelerazione nella resa dei conti fra i democratici. E qui si entra nel pieno della seconda questione, ovvero in una giungla quasi inestricabile. In cuor suo, Zingaretti vorrebbe rimanere al suo posto da amministratore di condominio, con lo scolapasta in testa, la golden share del governo in mano e i sondaggi favorevoli a gonfiargli le vele. Per quanto fiducioso in Conte e nella sua malleabilità (la chiamano resilienza ma si tratta di fungibilità universale), il segretario in carica lo preferirebbe al Quirinale poiché continua a puntare sulla futura premiership di Paolo Gentiloni, sempre pronto a essere richiamato dal suo scranno invisibile nella Commissione europea.

BIG IN RIVOLTA
Il problema è che i suoi soci non la pensano allo stesso modo. Franceschini si considera già quirinalizzabile da parecchio tempo e non senza qualche buona ragione; Orlando non sarebbe contrario al rigurardo, ma vede bene Zingaretti a Palazzo Chigi e se stesso al suo posto. Il resto del partito non sa che cosa scegliere e in questo tramestio ecco insinuarsi i piani dell'ambizioso, disinvolto ma anche capace Bonaccini, intenzionato a scalare il partito dal basso avvalendosi delle alleanze con gli amministratori locali e dando l'idea di stare lontano dalle trame labirintiche della Capitale. Laddove però, come dicevamo sopra e come osservano in queste ore alcuni testimoni maliziosi, sono allocati i suoi ex sodali promossi da Renzi ai tempi d'oro. Perché anche Bonaccini, non va dimenticato, dopo una specchiata militanza bersaniana si risvegliò gigliato dalla notte al giorno e fu candidato nel 2014 in Emilia-Romagna dall'ex sindaco di Firenze a spese dell'inconsolabile suo amico Matteo Richetti.

Sarà pure trascorsa una piccola èra geologica, da allora a oggi, ma al Nazareno il passato non si dimentica mai. In questa generale convulsione, bisogna infine tener conto di alcuni tratti fondanti della memoria storica post comunista. Nelle segrete stanze di quello che un tempo fu il Bottegone, sede nazionale e santuario laico del Pci, circolava una leggenda secondo la quale Palmiro Togliatti avesse stabilito che nessun emiliano avrebbe mai dovuto ottenere la leadership del partito, pena il suo avvitamento in una crisi fatale. «Chissà perché», ci si è domandati per decenni mentre il grande totem rosso passava di mano, cambiava nome e si fondeva con gli ex dc, fino a che nel 2009 non è sopraggiunto alla guida Pier Luigi Bersani da Bettola, provincia di Piacenza. Sappiamo però che il modenese Bonaccini è di un'altra pasta. Sappiamo inoltre che gli emilianoromagnoli nerovestiti, mascelluti calvi e volitivi, non rinunciano facilmente a marciare su Roma. In caso contrario, il lombardo Gori è comunque lì che smania.

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