Da ieri sera il governo Letta è messo male. Non che prima scoppiasse di salute. Tra Pier Luigi Bersani che crede ancora nell’esecutivo «del cambiamento» (unica differenza, anziché con i grillini ortodossi ora vuole farlo con quelli eretici), Matteo Renzi che ha già ordinato dal sarto il completino da piccolo premier, e i soldi per tagliare l’Imu che non ci sono, Enrico Letta era già uno dei tanti giovani precari della pubblica amministrazione. La scadenza non ufficiale impressa sul suo mandato era quella del 22-25 maggio del 2014, giorni nei quali si svolgeranno le elezioni europee. Le probabilità che gli italiani fossero convocati ai seggi anche per eleggere il prossimo Parlamento nazionale erano alte pure prima della decisione della Consulta, ma adesso l’eventualità di una fine prematura dell’esecutivo è cresciuta di molto. Con forte disappunto di Giorgio Napolitano, che dal pronunciamento di ieri non si aspettava un esito così negativo (per il governo). E con grande preoccupazione dello stesso Letta: consapevole della drammaticità della situazione, il premier si è trincerato dietro il principio per cui «non si commentano le sentenze», ma con i suoi collaboratori ha ammesso che la decisione della Consulta complica, e di parecchio, la vita del governo. Le ragioni sono politiche, ma anche di calendario. I giudici costituzionali hanno dato via libera alla Corte di Cassazione: questa dovrà pronunciarsi sulla sentenza d’appello che, per la vicenda dei diritti Mediaset, ha condannato Berlusconi a quattro anni di carcere e cinque di interdizione dai pubblici uffici. Il verdetto della Cassazione è atteso tra la fine del 2013 e gli inizi del 2014. Se l’ex premier dovesse uscire interdetto anche da questo ultimo grado di giudizio, l’onda d’urto travolgerebbe il governo. Con un timing perfetto per portare gli italiani al voto in primavera o al più tardi a fine maggio, in contemporanea con le europee. A meno che, per allora, la diaspora a Cinque Stelle non abbia dato vita a una forza parlamentare talmente solida da poter davvero fare il ribaltone e dare vita a un esecutivo sorretto da Pd, Sel e transfughi grillini. Un obiettivo che oggi pare lontano, ma la velocità cui si va decomponendo il movimento non va sottovalutata. Per Letta non cambierebbe molto: l’esperienza da premier sarebbe comunque finita. La sua permanenza a palazzo Chigi è legata all’appoggio del Pdl, che a sua volta è appeso alle sorti del Cavaliere. Lo sa benissimo Berlusconi, il quale infatti, appena la Consulta ha reso nota la decisione, ha assicurato che essa «non avrà alcuna influenza» sul «leale sostegno» del Pdl al governo. Frase che però va vista assieme al gesto di cui sono stati protagonisti i ministri del suo partito: hanno subito lasciato la sede del governo per recarsi dal Cavaliere, definendosi «allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati» per un verdetto che giudicano «incredibile». Al momento non hanno alcuna intenzione di dimettersi in massa, come aveva ventilato Maurizio Gasparri, ma si guardano bene dal seguire la linea di Letta per cui «le sentenze non si commentano»: nel momento più difficile, la loro lealtà va tutta a Berlusconi. Per il Pdl, la condanna ad opera della Cassazione significherebbe l’assassinio politico del proprio leader con armi giudiziarie. A quel punto non ci sarebbe davvero alcun motivo per restare alleati con i grandi beneficiati della interdizione di Berlusconi, a maggior ragione se nel frattempo il governo avesse confermato la propria incapacità a tagliare le tasse. Meglio cercare di tradurre la rabbia degli elettori di centrodestra in un plebiscito elettorale. Ma la decisione della Consulta accresce anche nel Pd la voglia di far saltare il governo. Berlusconi era e resta il nemico che milioni di elettori di sinistra vogliono estromettere dalla vita politica. Le condanne giudiziarie che probabilmente gli pioveranno sulla testa nei prossimi mesi aumenteranno la richiesta della base sugli eletti affinché interrompano ogni collaborazione con il Pdl. «Non si riscrive la Costituzione più bella del mondo assieme a un pluricondannato interdetto dai pubblici uffici», stanno già gridando gli elettori ai dirigenti del Pd. I quali dovranno essere forti per resistere a simili pressioni. Molto più facile per loro far saltare tutto, governo Letta e tavolo delle riforme, e puntare sulle elezioni in primavera: il congresso dei Democratici servirà proprio a farsi trovare pronti all’appuntamento. O, in alternativa, ricominciare da quel «governo del cambiamento» dietro al cui nome c’è solo la voglia di estirpare dall’Italia ogni radice di berlusconismo. I giudici - costituzionali e non – hanno già iniziato il lavoro. di Fausto Carioti