Può darsi che, nei suoi sogni più sfrenati, Matteo Renzi si immagini di scaraventare la Camusso sotto un treno della metropolitana, così impara a rompere le scatole sull’articolo 18. O, magari, il premier si figura di gettare il cadavere di Massimo D’Alema da una macchina in corsa, tanto per fargli pagare quelle intervistine piacevoli come un’emorroide. Perché queste sono le cose che farebbe Frank Underwood, il politico feroce e spietato interpretato da Kevin Spacey nella serie tivù House of Cards. A quanto pare, Renzi è un vero fanatico di questo splendido drama statunitense, ispirato agli altrettanto notevoli romanzi del britannico Michael Dobbs, editi in Italia da Fazi. Lo dicono i suoi collaboratori, e lui non ne fa mistero: ha comunicato via Twitter la sua passione e, soprattutto, in più occasioni ha fatto riferimento alla serie come modello a cui ispirarsi. Lo scorso maggio propose di rinnovare la formazione dei quadri del partito «non soltanto attraverso strumenti tradizionali, ma anche con le serie tv americane». Il riferimento era chiaro, tanto che domenica scorsa, invitandolo nel suo salottino, Fabio Fazio gli ha mostrato alcune immagini della seconda stagione di House of Cards, appena iniziata su Sky, domandandogli se il modo in cui rappresenta il potere sia corrispondente alla realtà. Renzi ha negato: «Il potere per me è prendersi cura, caricare su di sé la responsabilità degli altri». Insomma, ha fatto capire che secondo lui il protagonista della serie è troppo cinico e che, dopo tutto, si tratta pur sempre di una fiction. Però qualcosa non torna. Se House of Cards non è una rappresentazione corretta del potere e se il protagonista è troppo cattivo, per quale motivo Renzi ha suggerito di utilizzare la serie come strumento di formazione politica? Forse in uno studio televisivo non può dire ciò che pensa davvero, e cioè che il bastardone interpretato da Spacey è in realtà un ottimo esempio di che cosa funziona in politica. La domanda è lecito porsela, visto che è intervenuto in proposito Michael Dobbs in persona. All’International Communication Summit Europe ha raccontato: «Quando ho saputo che Renzi aveva acquistato una copia in libreria a Roma, ho ritenuto prudente inviargli una nota per ricordargli che il libro è solo intrattenimento e non un manuale d’istruzioni». Tra l’altro, c’è una singolare coincidenza: Dobbs è stato responsabile dello staff del Partito conservatore inglese ai tempi di Margaret Thatcher. Giusto pochi giorni fa, Susanna Camusso ha dichiarato: «Mi sembra che il presidente del Consiglio abbia un po’ troppo in mente il modello della Thatcher». Se la segretaria della Cgil dovesse imbattersi in una puntata di House of Cards, c’è il rischio che le venga un coccolone. Dopo tutto, il protagonista Frank Underwood qualche caratteristica in comune col presidente del Consiglio ce l’ha. Intanto, fa parte del Partito democratico. Poi, quando decide di dare l’assalto al cielo e conquistare il potere, la sua ascesa è irresistibile, grazie anche all’abile utilizzo dei media e della tecnologia. Nella prima stagione, Underwood ambisce all’incarico di Segretario di Stato, ma una trama di palazzo lo taglia fuori dai giochi. Invece di abbattersi, egli che fa? Decide di continuare a stare nella mischia, e di puntare decisamente più in alto. Un po’ quello che ha fatto Matteo: fu ribaltato alle primarie da Bersani, ma non si rassegnò alla sconfitta. Anzi, si è fatto largo fino alla presidenza del Consiglio marciando sopra i suoi stessi compagni di partito. Proprio come Underwood - al netto ovviamente degli omicidi e delle malvagità che quest’ultimo compie e che sono funzionali alla narrazione televisiva. Renzi, inoltre, è diventato premier senza passare dalle elezioni. E Underwood, nella serie, si compiace di essere diventato vicepresidente pur senza consensi: «La democrazia è così sopravvalutata», ghigna. Chissà, magari lo pensa anche Matteo, a giudicare da come si comporta. Il presidente del Consiglio, finora, ha sempre asfaltato i suoi avversari interni (o a fatto credere di esserci riuscito). Non a caso, uno dei motti di Underwood è: «C’è una sola regola: caccia o sarai cacciato». E vogliamo parlare della malattia che affligge Renzi sin dall’inizio, ovvero l’«annuncite»? Beh, Underwood ha una frase anche per quella: «La natura delle promesse è quella di rimanere immuni al cambiamento delle circostanze». Questa, forse, è la più grande somiglianza tra il personaggio interpretato da Kevin Spacey e quello interpretato da Matteo Renzi. La verità è che il modo di affrontare la politica di Underwood funziona eccome. Permette di conquistare il potere e di mantenerlo. Ha un solo problema: non dice nulla a proposito di come si governa un Paese. Ma probabilmente questo a Renzi non interessa. Tanto non ha intenzione di cimentarsi nell’impresa. di Francesco Borgonovo