Giampaolo Pansa: Ciriaco De Mita, l'eterno ritorno del ragazzo di Nusco
Nella nebbia avvelenata che soffoca la Casta, intravedo il volto di un politico d'altri tempi. Ho conosciuto bene Ciriaco De Mita, già segretario della Dc per sette anni e presidente del Consiglio per tredici mesi, dall'aprile 1988 sino al maggio 1989. Non l'ho mai frequentato in privato, ma ne ho scritto molto e ho parlato con lui decine di volte. Adesso scopro che alla notevole età di 86 anni ha deciso di fare il sindaco di Nusco, il suo paese natale. Il 25 maggio ha stravinto le elezioni, con il 77,4 per cento dei voti. E nell'immutata voglia di sentenziare a fin di bene, ha dichiarato: «Anziano? Ricordo che senza memoria storica non si può costruire il futuro». Già, la memoria! È una trappola per gli anziani come il sottoscritto. Ma negli spiriti liberi è anche la porta che conduce a scene del passato degne di racconto. La prima narra di un De Mita capace di suscitare la passione pure in chi non era democristiano. Un suo tifoso? Il mio direttore a Repubblica, Eugenio Scalfari. E quanto i due si amassero lo testimoniò il ben di Dio che Barbapapà riportò a casa nel tornare da un viaggio a Nusco. Era il settembre 1983, Ciriaco guidava la Dc da poco più di un anno ed Eugenio aveva accettato l'invito per un pranzo a casa De Mita. Arrivò a Nusco in auto, con Clemente Mastella, il capo ufficio stampa del partito. E venne accolto come un parente dall'intera tribù demitiana. Irrobustita da un battaglione di vicini di casa, clienti, simpatizzanti, gente del paese. Non era un incontro politico, infatti in quell'occasione si mangiò, si bevve e si chiacchierò alla buona. Il pranzo ebbe un seguito anch'esso memorabile. Al momento di ripartire, De Mita ordinò a qualche famiglio di fornire a Scalfari i viveri per il ritorno a Roma. Nel bagagliaio dell'auto vennero stipati forme di cacio, capocolli, provole, dolci di mandorle e miele, bottiglie di vino e di olio, con un corredo potente di altri generi alimentari. «Come se si dovesse fronteggiare di lì a poco un lungo assedio» scrisse poi Scalfari in La sera andavamo in via Veneto. La notizia del pranzo a Nusco e delle vettovaglie regalate da Ciriaco suscitò molti mal di pancia nell'ala comunista di Repubblica. E si discusse a lungo dei motivi segreti che avevano cementato il rapporto tra Scalfari e De Mita. Ma quello vero emerse soltanto anni dopo e spiega per quali strade nella Prima Repubblica si costruiva un leader di partito. All'inizio del 1982, pochi mesi prima del congresso democristiano, Giovanni Marcora, il capo della Base, una delle correnti di sinistra, chiese a Carlo De Benedetti di organizzare una cena a Milano tra imprenditori laici e illuminati per informarli di una sua idea a proposito del nuovo leader del partito. La cena si tenne a casa di Mario Formenton, allora capo della Mondadori. E tra gli invitati arrivarono, oltre all'Ingegnere, Leopoldo Pirelli, Luigi Lucchini, grande imprenditore dell'acciaio, e qualche altro pezzo grosso dell'industria nazionale. Il nome di De Mita venne bocciato. Era quasi uno sconosciuto, di lui si sapeva soltanto che da ministro dell'Industria aveva bloccato il prezzo della pasta. Un atto dirigista che lo aveva marchiato. Però Marcora era un osso duro. Ottenne dall'Ingegnere una seconda cena, stavolta a tre, con la presenza di Ciriaco. A De Benedetti il candidato De Mita parve «un fine ragionatore, complesso da decifrare, però molto intelligente». Morale della favola, ci fu una terza cena, nella casa romana dell'Ingegnere. E De Mita si trovò a tu per tu con Scalfari. Tra i due nacque subito «un'amicizia sincera» raccontò De Benedetti, quasi una passione. Quella di Scalfari per De Mita si fondava su tre pilastri. Il primo era la convinzione, o l'illusione, che Ciriaco fosse l'unico democristiano capace di rinnovare le nostre polverose istituzioni e rendere l'Italia «uguale alla Svizzera». Il secondo pilastro era il piacere e l'orgoglio di influenzare il capo della Dc. Il terzo era l'etnia meridionale di entrambi: De Mita avellinese, Scalfari di famiglia calabrese. Al cuneese Giorgo Bocca, star di Repubblica, sembrava la ragione vera dell'intesa tra i due: «Sono entrambi terroni, sempre pronti a darsi una mano». Ma quella di Giorgio era una spiegazione rozza. In realtà, Ciriaco era, e credo lo sia ancora, un signore perseguitato dalla convinzione di non essere compreso da nove cronisti su dieci. In ogni intervista si rasentava il dramma. Un giorno mi squadrò con una smorfia più infelice che beffarda, poi sospirò: «Pansa, tu non mi capisci. Ma se non mi capisci, come puoi pretendere di farmi della domande?». Era anche permaloso, come succede ai ragazzi di famiglie modeste che si sono conquistati la prima fila con lo studio e la fatica. Il giorno che Gianni Agnelli lo definì «un intellettuale della Magna Grecia», De Mita andò su tutte le furie. E gli replicò dicendo che l'Avvocato era un ignorante al cubo. Esperto di una sola cosa: scopare tutte le donne che gli piacevano. Tanto che qualcuno dei cervelli al servizio della Fiat doveva scrivergli anche il discorso più elementare. A differenza di tanti big della Balena bianca, con la lingua sempre coperta di vaselina, Ciriaco era sarcastico e sferzante. Ma anche concettoso e a volte troppo sottile. I suoi «ragionamenti» spesso diventavano una matassa difficile sbrogliare. Nel giugno 1988, quando era da due mesi il presidente del Consiglio, andò a Toronto per un vertice dei capi di governo. Ad un certo punto, gli statisti che lo ascoltavano, per prima la signora Margaret Thatcher, pensarono di aver dei problemi con l'auricolare. Invece era l'interprete di Ciriaco che aveva gettato la spugna, stroncato dalla suprema difficoltà di tradurre in inglese i ragionamenti demitiani. Ma l'Intellettuale della Magna Grecia sapeva essere un uomo di potere come i tanti che lo avevano preceduto in piazza del Gesù e a Palazzo Chigi. Un giorno andai a trovare il capo della sua segreteria politica, il calabrese Riccardo Misasi. Dovevo scrivere un ritratto di De Mita e il paziente Misasi lo conosceva da quando erano studenti dell'Università Cattolica a Milano, entrambi ospiti del collegio Augustinianum. E una delle prime cose che mi pregò di annotare furono le nomine decise da De Mita. «Hai visto che cosa ha fatto Ciriaco?» domandò Misasi. «Romano Prodi all'Iri. Franco Reviglio all'Eni. Anche Piero Barucci ha avuto il riconoscimento che merita. E lo stesso Gianni Zandano, un altro economista di valore. Se non sbaglio, è stato un tuo compagno di scuola al liceo. Un uomo dalla moralità assoluta. Ciriaco lo ha voluto alla presidenza dell'Istituto San Paolo di Torino, una delle principali banche italiane». Proprio su una carica bancaria andò in crisi l'amicizia tra De Mita e Scalfari. A presiedere la potente Cassa di risparmio delle province lombarde, la Cariplo, Ciriaco volle uno dei suoi, Roberto Mazzotta. Eugenio prese cappello. Scrisse un editoriale di fuoco, «Democrazia degenerata». De Mita replicò, ma Barbapapà lo paragonò a Bettino Craxi. Con l'unica differenza che «la masnada di De Mita era più numerosa e temibile di quella socialista». Era il novembre 1996. Ciriaco si imbestialì. E disse al suo portavoce Giuseppe Sangiorgi: «È un articolo ignobile. Risponderò a freddo con una cosa che Scalfari non dimenticherà più». In realtà non accadde nulla. E oggi faccio gli auguri al nuovo sindaco di Nusco. Sono certo che Ciriaco si comporterà benissimo. Tanto da meritare una nuova visita di Barbapapà. Prepari la scorta di viveri. di Giampaolo Pansa