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Il patto del rosso Bersanicon gli estremisti islamici

L\'islamico Bersani, visto da Benny

Come primo atto da candidato premier, vola in Libia per rendere omaggio ai Fratelli Musulmani. E per fare affari. Anche il "Financial Times" lo bacchetta

Andrea Tempestini
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di Marco Gorra Quando, subito dopo avere vinto le primarie del centrosinistra, Pier Luigi Bersani aveva annunciato l'intenzione di esordire da candidato premier recandosi in visita in Libia, parecchie sopracciglia si erano alzate. Viste le perplessità di comunità internazionale ed investitori su una possibile svolta a sinistra dell'Italia, ci si sarebbe aspettati da Bersani mete più funzionali per tranquillizzare quegli ambienti. E invece, rotta su Tripoli. Il viaggio di Bersani è terminato ieri (alle 20 era in agenda l'incontro a Palazzo Chigi col presidente del Consiglio Mario Monti), e pertanto si possono iniziare a tirare le prime conseguenze. Dal punto di vista più prettamente politico, il viaggio è servito a Bersani per rafforzare l'immagine di un centrosinistra saldamente filo-arabo. Non a caso, il segretario del Pd ha tenuto a precisare quanto sia «urgente che l'Italia riprenda il suo posto nel Mediterraneo con una sua iniziativa, un suo profilo». Questo spiega la necessità di Bersani di accreditarsi quanto possibile (anche mediante photo opportunity con le deputate locali) agli occhi della nuova leadership libica: intanto per far passare sul fronte interno il messaggio che quanto Berlusconi era legato al regime di Gheddafi tanto il centrosinistra intende esserlo ai nuovi padroni della Libia. E poi per mettere in chiaro con la nuova classe dirigente di Tripoli che, casomai servisse un interlocutore privilegiato, al Nazareno (e tra qualche tempo si auspica a Palazzo Chigi) le porte sono sempre aperte. Il problema è che la primavera araba non è un pranzo di gala. E per accreditarsi con essa bisogna parlare con gente non propriamente raccomandabile. Tipo l'organizzazione islamista radicale dei Fratelli musulmani, il capo della cui branca locale si mostra tuttavia contentissimo che Bersani li sia andati a trovare: «Siamo molto soddisfatti per la visita del segretario del Partito democratico», dichiara Mohamed Sowane, perché questa dimostra «l'importanza riconosciuta alla Libia da parte del candidato premier» e rende possibile «auspicare rapporti molto stretti con l'Italia». Ma non di sola politica vive la missione di Bersani. Libia, da che mondo è mondo, per l'Italia significa principalmente affari. E, a quanto pare, la politica industriale non era assente dall'agenda di Bersani. A tale proposito, un retroscena apparso ieri sulla rivista on line Formiche.net notava come Bersani non avesse incontrato il proprio omologo, ma avesse avuto appuntamenti con premier e ministri, come si usa appunto quando c'è da discutere di affari. E che affari: in ballo ci sono gli appalti per colossi del calibro di Eni ed Impregilo, senza contare le partecipazioni libiche in grossi nomi della nostra economia come Unicredit e Finmeccanica. E, data l'alta contendibilità del mercato libico, il sospetto che Bersani abbia trattato questi dossier ci sta: «Francesi, tedeschi, persino gli inglesi», rivela Formiche.net, «fanno pressioni per entrare nel business del Paese mediterraneo che proprio attraverso il feeling con Berlusconi (Pisanu e D'Alema prima) aveva sempre lasciato una via preferenziale all'Italia». E per correre ai ripari non è mai troppo presto. Quali che siano i risultati di questa e delle prossime missioni di Bersani, il nervosismo della comunità internazionale inizia a farsi palpabile. Se ha incassato la benedizione del tycoon franco-tunisino Tarak Ben Ammar (che ha commentato favorevolmente l'iniziativa libica), il leader del Pd ieri ha dovuto fare i conti con la sberla recapitatagli dal Financial Times. La Bibbia del capitalismo europeo ha praticamente intimato a Bersani di non rinnegare le politiche del governo attuale quanto a rigore e riforme di lavoro e pensioni oltre che di abbandonare ogni ambiguità circa la volontà di proseguire con l'agenda Monti. Per il quotidiano inglese, insomma, davanti al candidato premier del centrosinistra c'è «una montagna da scalare per dimostrare che è possibile guidare l'Italia da sinistra». Il clima della City non deve essere tanto diverso da quello che si respira dall'altra parte dell'Atlantico: «Le forze politiche maggioritarie in Italia», afferma l'ambasciatore statunitense David Thorne, «sono consapevoli della necessità di continuare in profondità sulla strada delle riforme cominciata da Mario Monti».

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