Ecco perché Monti finirà per candidarsi
Urne anticipate, Pd e Sel possibili vincitori e il boom di Grillo spaventano i "grandi elettori" esteri del premier. Dalla Casa Bianca alla City, la richiesta al Prof è di metterci la faccia
di Fausto Carioti Il voto anticipato, nell'aria da giorni e di fatto ancorato all'election day del 10 marzo durante il vertice di ieri al Quirinale, costringe il partito del Monti-bis a uscire allo scoperto. S'intende: il partito vero, quello che va dalla Casa Bianca ai grandi fondi d'investimento della City, non il wannabe che sarà lanciato oggi da Luca Cordero di Montezemolo. Come prima mossa questo schieramento chiede a Monti di compiere un passo avanti, candidandosi alle elezioni politiche. Monti resta contrario all'idea, sia perché non intende pregiudicarsi la poltrona sul Colle, sia per ragioni caratteriali (gli schizzi che volano in campagna elettorale gli imbrattano il loden). Ma le sue convinzioni non sono più così tetragone. L'impressione, confidata dal presidente del Consiglio all'amico e spin doctor Enzo Moavero Milanesi e alla strettissima cerchia di interlocutori di cui si fida, è che alla fine candidarsi sarà per lui una scelta obbligata. C'è allarme, tra i fan internazionali di quello che l'apologetico Financial Times ieri ha definito «il figlio prediletto di Milano», perché i calcoli ritenuti validi sino a pochi giorni fa rischiano di rivelarsi sbagliati. Il Monti bis era considerato, se non una certezza, un evento altamente probabile. Bastava che il Professore si tenesse da parte, senza immischiarsi nella bagarre politica, dichiarasse una generica disponibilità a guidare il prossimo governo, ovviamente nel deprecabile caso in cui il Parlamento uscito dalle elezioni non fosse riuscito a insediare un governo politico, e il gioco era più o meno fatto. La vittoria ai punti della sinistra, data per scontata, non avrebbe comunque impedito la nascita di una grande coalizione e di un esecutivo affidato al bocconiano, specie se nel frattempo fosse intervenuta una riforma elettorale in grado di ridurre il premio di maggioranza previsto dal Porcellum. In caso contrario ci avrebbe pensato l'imprevedibilità del voto al Senato, con il premio deciso su base regionale, a rendere necessaria l'intesa tra avversari. Monti la sua parte l'aveva fatta il 27 settembre, guarda caso a New York, dicendo in pubblico - su esplicita richiesta del segretario statunitense al Tesoro, Tim Geithner -che avrebbe «preso in considerazione» l'ipotesi di un secondo mandato, se solo gli fosse stato richiesto. Era il segnale atteso dall'amico Barack Obama. Questa disponibilità, però, sembra non bastare più. Per paradosso, proprio quando diventa concreta la possibilità di legare il premio di maggioranza a una soglia irraggiungibile per la coalizione Pd-Sel, la paura che Monti possa non essere confermato premier si fa più forte. Il crollo verticale del Pdl nei sondaggi; la crescita dei grillini, primo partito in Sicilia (e ancora da valutare in Italia); la determinazione di Pier Luigi Bersani nel proseguire l'alleanza con Nichi Vendola, cioè con uno che promette di fare l'esatto opposto di quanto previsto nell'agenda di Monti; la volontà di Giorgio Napolitano (ritenuto una garanzia dagli interlocutori internazionali) di non essere lui quello che darà l'incarico al prossimo premier (e allora chi?): tutti fattori che fanno ritenere un governo politico di centrosinistra, figlio magari di alleanze innaturali tra Sel e l'Udc o tra il Pd e il Movimento 5 stelle, un pericolo da prendere in considerazione. Così a Palazzo Chigi sono arrivate nuove richieste. Gli interlocutori sono gli stessi di prima, ma ora hanno aspettative più alte: se Monti vuole fare il premier, si candidi come premier. Partiti e associazioni che lo implorano di adottarli non mancano. L'invito è giunto in molti messaggi privati. Non è un mistero che l'ambasciatore statunitense a Roma, David Thorne, voglia regalare a Obama un'Italia «normalizzata» e affidata alle mani amiche di Monti. Un disegno ovviamente condiviso dal Vaticano. Il pressing si sta facendo asfissiante e adesso è diventato anche pubblico. Ieri il Financial Times, quotidiano inglese che mette su carta i desideri della City, ha dedicato alla questione un editoriale. Dopo aver raccontato che «l'idea più interessante» è che Monti «possa guidare una lista sostenuta da leader della società civile, forse in alleanza con i centristi o i partiti del centro sinistra», conclude - in modo tutt'altro che imprevedibile - che «la logica della situazione potrebbe alla fine costringere Monti a candidarsi». Esito che traspare pure dalle parole del ministro dell'Economia. Intervistato dallo stesso quotidiano, Vittorio Grilli avverte che per andare avanti sulle riforme «serve un mandato politico forte», cioè un governo legittimato dalle elezioni, e non esclude che alcuni membri dell'attuale esecutivo possano rimanere al potere anche al prossimo giro. Nel caso Monti dovesse davvero candidarsi, sarà interessante vedere cosa farà il Pdl. Era la domanda che girava ieri nei palazzi romani, alla quale i diretti interessati non sapevano dare risposta univoca. Lo stesso Silvio Berlusconi, ieri a Milanello, prima ha detto che «dopo un anno di governo tecnico i dati sono disastrosi», poi però si è guardato bene dallo sbattere la porta in faccia all'ipotesi di Monti leader dei moderati. «È lui che deve decidere cosa fare, bisogna domandarlo a lui», ha detto. Del resto Monti alla guida del centrodestra è una vecchia idea del Cavaliere. Se l'alternativa fosse tra andare al massacro insieme alla Lega e mettersi con Pier Ferdinando Casini e Montezemolo, per puntare alla vittoria contro la sinistra sotto le insegne di Monti, Berlusconi ci penserebbe sopra molto bene.