Cav, prova di forza col Colle:traditi i patti sulla giustizia
Il "salvacondotto giudiziario": è questa la chiave per comprendere il nesso tra la condanna Mediaset e la rappresagia contro Monti e Napolitano
di Salvatore Dama Torna d'attualità la storia del salvacondotto giudiziario. Quell'azione in cui avrebbe dovuto spendersi il Quirinale per la normalizzazione dei rapporti tra politica e magistratura, in cambio di una progressiva uscita di scena di Silvio Berlusconi e del sostegno del Pdl alla formazione del governo di Mario Monti. Torna, perché altrimenti è difficile spiegare il nesso tra la condanna a 4 anni di reclusione patita dal Cavaliere giovedì pomeriggio, le sue critiche a Napolitano «occupante» del Colle e la rappresaglia che l'uomo di Arcore minaccia contro il governo dei tecnici. Pura tigna. Perché l'ex premier non avrebbe alcun vantaggio politico a far cadere il suo successore: si voterebbe comunque l'anno prossimo e lui andrebbe alle urne col marchio della irresponsabilità tatuato a vista. Se Napolitano aveva promesso un interessamento, è evidente che non l'ha fatto. E Silvio si è stufato di dare retta alle colombe. Cioè a chi in questi mesi gli ha consigliato di mantenere relazioni costruttive con il Quirinale e con Palazzo Chigi. O di inseguire Pier Ferdinando Casini per provare a riunificare i moderati italiani che a Bruxelles siedono insieme nella famiglia del Ppe. Tutta fatica sprecata. Ha tenuto il freno a mano tirato nell'auspicio che ciò servisse a qualcosa. Non è andata così. E adesso Silvio ha deciso di assecondare solo la sua indole da combattente, «perché a essere troppo buoni si passa per coglioni...». Dura due giorni la strategia del disimpegno. Era chiaro che non era farina del suo sacco. Ma una opzione consigliata dai consiglieri più ragionevoli del Cavaliere, in primis Gianni Letta e Giuliano Ferrara. Una scelta che non ha pagato. Anzi, i giudici di Milano hanno visto issare la bandiera bianca e hanno potuto mirare meglio. «Bravi, grazie del contributo! Ma adesso si fa alla mia maniera», Silvio ha scaricato la diplomazia e ha calzato l'elmetto. Di mattina si sveglia e decide che vuole dire agli italiani «come stanno le cose». Convoca lo staff e indice una conferenza stampa per il pomeriggio a villa Gernetto, la sede dell'Università del pensiero liberale. Nel frattempo, in un collegamento telefonico con il Tg5 dell'una, annuncia il ripensamento: «Non posso abbandonare l'impegno politico finché in Italia ci sarà una giustizia del genere». Clic. Ora a Roma girano le voci più varie. In attesa del discorso alla Nazione, falchi e colombe si attaccano alla giacca del Cavaliere. Chi lo invita a scelte drastiche, chi lo implora di mantenere la calma. Il sito del Foglio rilancia l'indiscrezione che Berlusconi starebbe per annunciare un «suo partito per la “giustizia giusta”» distinto ma alleato con il Pdl. Cosa che, in conferenza stampa, Silvio non fa. Dice di voler rimanere «presidente del suo partito» e in questa veste rilanciare la sua battaglia politica senza incidere sulle primarie. È una parola. In un'ora Berlusconi ribalta la linea politica della segreteria (dialogo con Casini e moderata soddisfazione verso l'azione di governo) e chissà cosa altro può succedere nei prossimi giorni. Quando a Montecitorio arriverà il pacchetto giustizia. I fedelissimi di Silvio, come Luca D'Alessandro, ammoniscono i professori a non mettere il voto di fiducia: con questo clima sarebbe la loro Caporetto. Ma è anche vero che il Pdl è spaccato. E sono tanti i parlamentari che non intendono seguire il Cavaliere in questa ennesima, forse ultima crociata contro la magistratura. Attaccando il governo Monti, Silvio intercetta il consenso dell'ala anti-prof, specie gli ex Alleanza nazionale. Ma Berlusconi si perde per strada la parte moderata del partito. Quella che aveva gioito mercoledì alla notizia dell'addio berlusconiano. E che stava organizzandosi per una transizione verso un contenitore moderato e depurato dagli spigoli più appuntiti del berlusconismo. Tutto in fumo. Perché da un lato Berlusconi annuncia di voler lasciare che il partito scelga il suo candidato premier con le primarie; dall'altro detta un programma elettorale hard basato sulla dialettica anti-giudici e anti-tasse, con una notevole spruzzata di antieuropeismo. I duri e puri sono soddisfatti per il «rinsavimento» del Cavaliere. Il quale, dopo la botta dell'altro giorno, ha capito la lezione: «Non c'è pace, non c'è possibilità di un'uscita di scena serena dalla politica. È chiaro che il mio destino è quello di lottare fino alla fine». E lui si sente come Russell Crowe nel film il Gladiatore.