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La condanna a Silvio Berlusconi?Una roba mai vista prima...

Silvio Berlusconi

Andrea Tempestini
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  di Filippo Facci Così però non si era mai vista. Già nel 1998 Berlusconi prese una condanna in primo grado, è vero, ma non così. Seccamente: il Cavaliere, a Milano, è stato condannato in primo grado a 4 anni nel processo sulle presunte irregolarità nella compravendita dei diritti tv da parte di Mediaset; la sentenza è durissima per quattro ordini di motivi: perché prevede anche l'interdizione per 5 anni dai pubblici uffici (se confermata in Cassazione), perché i pm avevano chiesto una pena addirittura inferiore (3 anni e 8 mesi) e perché il dispositivo prevede un versamento di dieci milioni all'Erario come risarcimento dei danni, questo «in via provvisionale», il che significa che Berlusconi dovrà pagarli subito. Nota: il presidente di Mediaset, Fedele Confalonieri, è stato invece assolto con formula piena mentre il produttore statunitense-egiziano Frank Agrama, presunto socio occulto di Berlusconi, ha beccato 3 anni di carcere. Nota due: i 4 anni di Berlusconi diventano uno solo grazie all'indulto del 2006. Il quarto motivo di gravità, proseguendo, è che il presidente del collegio della Prima sezione penale, Edoardo d'Avossa, dopo aver letto il dispositivo della sentenza è passato a leggerne immediatamente anche le motivazioni (per due ore) secondo una procedura d'urgenza invero rara per procedimenti di tale complessità: ed è qui che ha ravvisato, in Silvio Berlusconi, «una naturale capacità a delinquere mostrata nella persecuzione del disegno criminoso». Naturale, ha detto.  Il giudizio pendente E non è finita ancora: la sentenza è arrivata nonostante sia pendente un giudizio della Corte Costituzionale su un già noto conflitto di attribuzioni con la Camera: la presidenza di Montecitorio si era rivolta alla Consulta dopo che il tribunale milanese aveva rifiutato il rinvio di un'udienza nonostante Berlusconi fosse ufficialmente impegnato in attività di governo: era il marzo 2010. Che i giudici non aspettino la decisione della Consulta può anche accadere, ma è molto raro, anzi: è prassi che i giudici si fermino poco prima di una sentenza in attesa di una decisione che appunto riguarda quello specifico processo. Se la Consulta decidesse che a suo tempo vennero violate le prerogative del premier, del resto, la sentenza di ieri potrebbe uscirne azzerata: ma il giudice D'Avossa non è stato dell'idea. Una scelta che ne ricorda un'altra, risalente all'ottobre 2008: il giudice Nicoletta Gandus, nel processo che vedeva imputati Berlusconi e l'avvocato David Mills, decise di non attendere il parere della Corte Costituzionale circa un ricorso presentato dal pm Fabio De Pasquale contro il Lodo Alfano: e preferì proseguire il dibattimento solo nei confronti del coimputato Mills. A comportarsi diversamente, per paradosso, fu proprio il giudice D'Avossa, che a margine dello stesso ricorso presentato da De Pasquale, nel tardo settembre 2008, sospese invece il processo in attesa della decisione della Consulta: per il giudice, evidentemente, le eccezioni di costituzionalità non sono tutte uguali. D'Avossa è lo stesso giudice contro il quale, nel 2007, appena iniziato il dibattimento, i legali di Berlusconi proposero istanza di ricusazione perché si era già occupato del Cavaliere nel filone d'indagine Medusa: in quella sede aveva definito Mediaset «una società nota per i fondi neri all'estero». L'istanza fu respinta, ovviamente: ma fu uno solo dei tanti percorsi a ostacoli che hanno caratterizzato il processo. Si parla di nove anni di indagini, un'udienza preliminare interminabile, i rinvii a giudizio nel 2006, i singhiozzi procedurali tra richieste di ricusazione, l'istanze di astensione presentate dai giudici, capi d'imputazione che cambiano, slittamenti dovuti al Lodo Alfano, il citato ricorso alla Consulta, richieste di trasferimento, legittimi impedimenti e altro ancora: servirebbe una pagina, sul serio. Processo lunghissimo Detto questo, spiegare i dettagli di questo processo non è solo difficile: è inutile. Non si tratta - come pure nei dibattimenti Mediatrade o Mills 1 e 2 - di processi in cui una tesi e un'antitesi possano essere seriamente prospettate in una quadro che, mediaticamente, permetta di farsi un'idea: l'istruttoria è stata imperniata su sfilze di testimoni, rogatorie internazionali provenienti da paesi e legislazioni diverse (50 mila pagine attraverso rogatorie in 12 paesi) e sorretta soprattutto su consulenze di società tecniche incaricate ad hoc dalla Procura, come per esempio la Kpmg;  dall'altra, le tesi della difesa sono state egualmente imperniate su sfilze di testimoni - in parte defalcati - nonché su contro-deduzioni tecniche svolte da vari professionisti nei confronti delle consulenze addotte dall'accusa: in mezzo a tutto questo, per sei anni, c'erano - quando c'erano - i cronisti interdetti oltreché il giudice Edoardo D'Avossa, il quale ha meramente deciso che una tesi era più convincente dell'altra. A complicare le cose ci sono i diversi calcoli sulla prescrizione e le diverse valutazioni della procura di Milano rispetto a quella di Roma, a cui è finito uno stralcio del processo: ma su questo si veda l'articolo di Franco Bechis.  In soldoni, comunque, il giudice ha accolto in pieno le tesi dei pm Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo secondo i quali Berlusconi, pur non ricoprendo più cariche formali all'interno di Mediaset, si occupava lo stesso degli affari di famiglia. È lui che avrebbe disposto il pagamento dei diritti dei film hollywoodiani da trasmettere sulle reti Mediaset, il tutto a prezzi gonfiati per produrre uno «scrigno» di fondi neri per oltre trecento milioni di euro, poi approdati sui conti esteri della famiglia. Traduzione: falso in bilancio e frode al fisco. Il citato manager Agrama, in pratica, secondo l'accusa rivendeva i film a Berlusconi a prezzi nettamente superiori a quanto pagato alle case cinematografiche di Hollywood, ignare. La differenza, dal 1995, avrebbe permesso a Mediaset (ex Fininvest) 120 miliardi di lire di risparmi sul fisco. La difesa Va da sé che la difesa del Cavaliere l'abbia messa in tutt'altro modo: «La Procura ha dimostrato di non conoscere il mercato dei diritti tv», disse l'avvocato Niccolò Ghedini nel gennaio scorso. Un teste chiave, secondo quest'ultimo,  doveva essere Andrea Marcotulli, ex direttore generale dell'Anica (Associazione nazionale Industrie Cinematografiche) ed esperto di diritti tv. A dire di Ghedini, l'esperto dimostrò la legittimità dell'utilizzo degli intermediari come Frank Agrama nel mercato internazionale dei diritti: e Marcotulli evidenziò in effetti una serie di carenze contenute nella relazione di Kpmg, la società che aveva fornito consulenze all'accusa. Il giudice non sembra averne tenuto conto, e infatti secondo le difese «la sentenza è incredibile e va contro le risultanze processuali». Sentenza che parla di «evasione notevolissima», «sistema fraudolento», di «diretta riferibilità a Berlusconi del sistema dei diritti televisivi» poiché Berlusconi «gestiva il sistema anche dopo la discesa in campo», lui «dominus indiscusso». Così recita la sentenza, e le sentenze si dovrebbero rispettare. Una volta comprese.  

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