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Osmetti: in Italia sta crescendo la paura di guidare

di Claudia Osmetti lunedì 3 febbraio 2025

4' di lettura

Angoscia, tanta. Tachicardia, iperventilazione, sudorazione. E resti lì, paralizzato. Una mano sulla leva del cambio e il motore spento. Di girare le chiavi nel quadro non c’è verso. Il piede sui pedali trema e hai la sensazione, totalizzante, di non avere il controllo. Non è che non sai guidare: la patente ce l’hai, l’hai presa magari al primo colpo, per anni sei andato al lavoro in macchina. Solo che, adesso, lo scoglio più grande che devi fronteggiare la mattina è metterti al volante. Non ce la fai proprio, è più forte dite: e finisce che (quando va bene) prendi l’autobus e (quando non è possibile) chiedi un passaggio a tua moglie o al tuo migliore amico o a un famigliare, magari addirittura a tuo figlio neo-maggiorenne.

Succede, e succede più spesso di quello che si possa pensare: è una fobia a tutti gli effetti (infatti ha anche un nome specifico, si chiama “amaxofobia”, amaxos in greco vuol dire carro) e secondo delle stime recenti tocca addirittura il 33% della popolazione. Che è una percentuale altissima ma sulla quale, forse, conviene fare una “tara”. «In quella fetta ci sono, presumibilmente, anche le persone che soffrono di un disturbo di ansia generalizzata che si manifesta in vari aspetti della vita, tra cui c’è, come è ovvio, anche la guida», spiega Stefania Righini, psicologa, psicoterapeuta e docente della Scuola sugli studi cognitivi di Milano e Firenze, «oppure quelli con un disturbo ossessivo-compulsivo che dà loro pensieri relativi al poter fare un incidente e quindi non prendono l’automobile perché la sola idea mette loro estrema ansia».

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Esempio numero uno (a raccontarlo, questa volta, è il presidente dell’ordine degli psicologi del Piemonte Giancarlo Marenco che riferisce il caso trattato da un collega): «Una nonna non andava dai nipoti perché non riusciva a fare il percorso, è stata accusata di non volersene occupare ma poi è venuto fuori che il problema era, per lei, proprio quello di non riuscire prendere la macchina». Esempio numero due: l’uomo che ha un attacco di panico mentre è in un tunnel, oppure in un sottopasso (questa situazione pare essere tra le più diffuse). Esempio numero tre: il ragazzino appena 18enne che rinuncia alla scuola guida e a prendere la licenza perché attanagliato dall’angoscia.

«Sui più giovani, in una certa misura, e per davvero, il Covid ha impattato con quello che è stato un semi-isolamento obbligato per tutti e specialmente per chi aveva un’età adolescenziale», afferma Righini, «e anche il fatto che la nostra società, oggi, richieda ai ragazzi prestazioni che siano sempre “postabili” sui social network, ossia visibili, un crescendo in termini di ansia da prestazione l’hanno indubbiamente creato. Non abbiamo elementi scientifici, tuttavia, al momento, per dire che questo sia direttamente connesso alla paura della guida. È un discorso più generale».

Ed è anche un discorso, quello dell’“amaxofobia”, che cambia da persona a persona: c’è chi non riesce proprio a sedersi al posto del conducente nella vettura di famiglia e chi non imbocca mai l’autostrada, chi la macchina la guida solo se non è da solo o chi (all’esatto contrario) non vuole passeggeri di cui sentirsi “responsabile”. E ci sono anche casistiche differenti che riguardano i tempi moderni: al giorno d’oggi saper guidare un’auto, specie nelle grandi città, non è più una necessità imprescindibile e, di conseguenza, non è una priorità con cui fare i conti l’attimo dopo aver compiuto diciotto anni.

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Cosa si fa, però, quando questa paura diventa talmente invalidante che anche in una situazione di emergenza (corna e speriamo di no: devi portare di corsa un conoscente al pronto soccorso) sei bloccato e completamente soffocato dall’agitazione? «La prima indicazione terapeutica dettata da tutte le linee guida internazionali, sia che si tratti della fobia specifica sia che si rientri nell’alveo più ambito di quel 33% che abbiamo già spiegato, è la psicoterapia cognitivo-comportamentale», dice la dottoressa. «Consiste in una “ristrutturazione”, in un ragionamento da fare assieme a un professionista rispetto a quello che “ti passa per la testa” in quei momenti e che ti impedisce di stare tranquillo mentre sei alla guida. Il terapeuta condivide con il paziente delle esposizioni graduali e pian pianino il soggetto riesce a passare all’azione svolgendo anche esperienze corporee».

Però attenzione: «Il protocollo è una condivisione, non significa che il terapeuta sale con lui in macchina e sta al suo fianco mentre ci prova. Assieme, però, ne discutono: e anche qualora il paziente non ottiene il risultato sperato, perché anche quella è una fonte del ragionamento alla base della quale si possono rivedere gli obiettivi. Un passettino per volta, sempre». In alcune situazioni particolarmente gravi qualcuno ricorre ai farmaci (in particolare agli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) che però una soluzione del tutto soddisfacente non sembrano apportarla o persino alla realtà virtuale che permette di ricreare condizioni di pericolo percepito ma in un ambiente del tutto sicuro e controllato.

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