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Calessi: Schlein farà campagna contro il Jobs Act (e mezzo Pd)

di Elisa Calessi mercoledì 22 gennaio 2025

3' di lettura

Il Pd, ha detto ieri Elly Schlein, «farà la sua parte» nella battaglia dei referendum «rimasti in piedi». A cominciare da quello contro il Jobs Act. Proprio questi quesiti - i quattro che lo riguardano ammessi dalla Corte Costituzionale, insieme a quello sulla cittadinanza - rischiano di essere un problema non piccolo per la segretaria dem. Anzi un doppio problema. Per la faglia che si aprirà nel Pd, ma anche per quella che attraverserà la difficile costruzione di una coalizione centrosinistra, dal momento che almeno due partiti (Italia Viva e Azione) si schiereranno a difesa del Jobs Act. Soprattutto Italia Viva, ovviamente, visto che il leader è Matteo Renzi, premier che si intestò quella riforma.

Il primo scoglio, però, e forse anche il più grosso sarà il Pd. Non tutti i dem, infatti, la pensano come Elly Schlein, da sempre e coerentemente contraria alla riforma che fu fiore all’occhiello del governo Renzi. A tal punto contraria che, come spesso ricorda, fu su quella legge che decise di uscire dal Pd (la sua militanza, infatti, iniziò con il movimento Occupy Pd, dopo il “tradimento” dei 101 sull’elezione di Romano Prodi al Colle).

Per questo, quando Maurizio Landini decise di schierare la Cgil su questa battaglia, raccogliendo le firme per fare un referendum, Schlein fu tra i primi a firmare. E ieri lo ha ribadito: «Oggi in segreteria abbiamo parlato dell’Autonomia, ma comunque io li ho firmati e senz’altro non faremo mancare il nostro contributo alle sfide che sono rimaste in piedi». Solo che gran parte dell’attuale gruppo parlamentare del Pd ha approvato, ai tempi, quella riforma. Non solo chi allora era in maggioranza, i “renziani”, a quel tempo ministri, con incarichi nei gruppi o nel partito. Anche chi era in minoranza votò quella legge. Con che faccia, dopo averla votata, ora può fare campagna per abolirla? Tanto che, nei mesi scorsi, in molti hanno provato a suggerire alla segretaria di non impegnare il Pd su questo referendum, visto che sarebbe stato una mina pericolosa per i dem. Ma tant’è.

Schlein ha scelto di difendere il nuovo posizionamento del suo Pd, costi quel che costi. E il costo si è cominciato a intuire. «Un referendum sul Jobs Act», ha avvertito il senatore Alessandro Alfieri, vicino a Stefano Bonaccini, in una intervista al Corriere della Sera, «rischia di riaprire ferite del passato. Fin dall'inizio ho dichiarato che non l'avrei sostenuto». E ha avvertito: «La segretaria ha sostenuto che non era in Parlamento quando è stata approvata quella legge. Rispetto la sua scelta. Mi limito a sottolineare», ha però aggiunto, «che allora praticamente tutta la dirigenza del Pd votò il Jobs Act. Tra loro, anche molti dei principali sostenitori di Elly al congresso: da Bersani a Orlando, da Speranza a Braga».

Sempre Alfieri ha ricordato che «il Jobs Act conteneva tanti aspetti innovativi, alcuni che non hanno funzionato, altri che non sono stati attuati», ma «utilizzare il bazooka dove basta un bisturi è sempre un errore». Un bazooka che rischia di essere rivolto contro il Pd. O meglio: contro una parte del Pd. E, certo, non farà che aumentare il disagio di riformisti e cattolici, che nel week-end scorso, tra Orvieto e Milano, avevano chiesto di rafforzare un profilo di governo. Schlein, però, non sembra preoccupata. E, almeno su questo, non intende cambiare rotta. Come ha spiegato Arturo Scotto, capogruppo del Pd in commissione Lavoro alla Camera, «si aprirà certamente una inevitabile discussione sull'indicazione di voto del Partito democratico».

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E ad Alfieri, che invitava a non riaprire ferite, ha risposto: «Non vorrei che, per non riaprire ferite interne, si riaprisse una ferita ben più grossa con un pezzo rilevante di popolo della sinistra che, anche a causa del Jobs act, ha scelto di divorziare dalla sua rappresentanza politica tradizionale». Dunque, «giusto discutere, confrontarsi» ma poi bisogna «schierarsi per il sì», «stare a metà non è una linea politica».

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