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Giovanni Sallusti: all'Onu per fare carriera bisogna odiare Israele

di Giovanni Sallusti venerdì 29 novembre 2024

3' di lettura

Lo strabismo sistematico, cronico, probabilmente inguaribile delle istituzioni internazionali rispetto alla guerra Israele-Hamas (dire conflitto israelo-palestinese è già accettare la narrazione strabica) non è una tesi filosionista, è la realtà della vita e delle persone. Prendiamo due storie (troppo) parallele. La prima è quella dell’ormai onnipresente Francesca Albanese, che ha scalato la filiera degli incarichi Onu e mantiene la sua targhetta di relatrice speciale sui territori palestinesi occupati (non si capisce perché debba esistere questa particolare figura e non, ad esempio, un relatore sull’oppressione femminile nella Repubblica Islamica dell’Iran, o sui campi di concentramento nordcoreani) parlando un giorno sì e l’altro pure del “genocidio” praticato dallo Stato degli ebrei, senza nemmeno accorgersi del cortocircuito storico e logico dell’espressione.

Il secondo volto è quello della keniota Alice Wairimu Nderitu, consulente speciale per la prevenzione del genocidio delle Nazioni Unite. La quale, come ha raccontato ieri Libero, è stata rimossa dal suo incarico proprio perché si rifiuta di applicare quella parola incommensurabile e infame alla campagna militare di Israele contro le squadracce nazi-islamiche di Hamas. Lo psicoreato in cui è incorsa la Nderitu consiste nella pubblicazione nel 2022 da parte del suo ufficio di un report in cui si incitavano i funzionari Onu ad “aderire all’uso corretto”, diciamo scientifico e non ideologico, del termine “genocidio”. E non si trattava di un’indicazione generica, il documento citava singoli esempi salienti e storicamente individuati. L’Olocausto è un genocidio. Lo sono stati il massacro dei tutsi in Ruanda e la strage dei bosniaci da parte dei serbi.

L’offensiva di Israele a Gaza no, non lo è. Tanto è bastato perché alla consulente keniota venisse (poco) gentilmente indicata la porta. L’ultima parola sul suo licenziamento spetterebbe al Segretario Generale Guterres, ma visto la serenità di giudizio che coltiva costui su tutto quel che riguarda lo Stato ebraico (ricordiamo per tutte la perla “il 7 ottobre non viene dal nulla”), la malcapitata può già tranquillamente dedicarsi agli scatoloni. A conferma dello strabismo congenito, Guterres e la sua gerarchia burocratica hanno invece sempre premiato e difeso la Albanese, che pure avrebbe fornito materiale in abbondanza quantomeno per una riflessione sul suo ruolo, diciamo.

Nel novembre 2022, fresca di nomina, partecipò a Gaza a una conferenza organizzata da quel laboratorio di idee noto come... Hamas. E in quella sede, secondo il resoconto del Jerusalwm Post, disse: «Avete il diritto di resistere a questa occupazione. Un’occupazione richiede violenza e genera violenza». Coerentemente, all’indomani del pogrom realizzato dal suddetto club sentenziò: «Le vittime del 7 ottobre non sono state uccise a causa del loro giudaismo, ma in risposta all’oppressione di Israele». Nessuno dei suoi superiori ebbe una sillaba da ridire (del resto, stava dettagliando l’invito a contestualizzare l’orrore del superiore in capo).

Più recentemente, è andata oltre, ha osato l’inosabile, stracciando ogni senso storico e incenerendo ogni memoria condivisa. Ha infatti reagito a un post di un funzionario Onu in pensione che accostava la foto di Netanyahu a quella di Hitler col seguente commento: «Questo è esattamente ciò che pensavo oggi». Cioè, la Albanese pensa (e ci tiene a comunicarcelo) che il responsabile primo di quell’abisso che ha squarciato la Storia e deturpato l’umanità noto come Shoah, sterminando tra l’altro 6 milioni di ebrei, sia equivalente all’attuale leader dello Stato ebraico. Secondo l’Alleanza Internazionale per la Memoria dell’Olocausto, uno dei segni inequivocabili di antisemitismo consiste proprio nel «fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti». Esattamente quel che ha fatto Francesca Albanese, nel silenzio ammirato degli alti papaveri Onu. Ha capito tutto, l’italiana, mica come quella africana che vorrebbe ancora connettere il linguaggio alla realtà, e da oggi deve cercarsi un lavoro.

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