Quella contro l’immigrazione irregolare sta diventando una battaglia da combattere contro il tempo. Inteso non solo come scadenza oltre la quale le conseguenze diventeranno irrimediabili, ma anche come parentesi storica. La cronaca recente, specie quella relativa alla decisione del Tribunale di Roma sul “rimpatrio in Italia” dei migranti dirottati nei centri di accoglienza in Albania, dimostra l’esistenza di un bias tra la norma e la contingenza. E la magistratura impegnata, ovviamente, ci sguazza.
In sostanza alcune toghe, vogliose di mettere i bastoni tra le ruote al governo, fanno appello a delle normative nel migliore dei casi anacronistiche. Tutta l’impalcatura del diritto internazionale umanitario, infatti, si basa su degli assunti elaborati negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando l’accoglienza veniva ragionata pensando soprattutto ai dissidenti sovietici (oltre naturalmente ai profughi di guerra). Non esisteva, all’epoca, ciò che poi è diventato un fenomeno non solo di massa nella forma, ma altamente strumentalizzabile, dalla politica e dalla criminalità, nella sostanza. Ancora nei delicati mesi del crollo del muro, tra il 1989 e il 1990, si discutevano in Italia le prime norme sul tema del diritto all’asilo, basate su assunti che oggi sembrano primitivi e che invece allora portarono all’adozione della “Legge Martelli”.
Il contesto nel quale venne discussa era viziato dalla presa di coscienza della trasformazione dell’Italia da terra di emigrazione a terra di immigrazione. Sul piano globale, con il riassetto degli equilibri a seguito del crollo dell’Urss, i flussi di rifugiati europei provenienti dal blocco ex-sovietico vennero ben presto soppiantati da quelli “forzati” dai nuovi conflitti scaturiti (anche) dalla fine del comunismo. L’Italia, Paese ancora in crescita economica, divenne così facile destinazione finale dei flussi di migranti forzati e al tempo stesso anche economici.
Ma che il diritto non riuscisse ad andare di pari passo con i fenomeni storici lo si ravvisò già con la crisi albanese dell’agosto 1991, con ben 48mila persone che raggiunsero le coste pugliesi. La Puglia, che non disponeva di centri di accoglienza, improvvisò grazie alle reti informali del volontariato e delle parrocchie. Molti albanesi vennero rimpatriati, ma la maggioranza si disperse sul territorio senza essere registrata.
Solo in pochi vennero ammessi alla procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato. Che doveva già essere cambiata all’epoca. L’anno dopo però prese avvio la drammatica e violenta guerra civile in Somalia, che da venticinque anni martoria la popolazione civile. E nello stesso periodo si polverizzò la penisola balcanica.
Sul piano giuridico non era nemmeno previsto uno status in cui potessero essere ricondotti i migranti forzati: nonostante la legge Martelli vietasse esplicitamente il respingimento o l’espulsione di un migrante «verso uno Stato ove possa essere oggetto di persecuzioni per motivi di razza, sesso, opinioni politiche, condizioni personali o sociali», nulla veniva disposto ad esempio circa lo status dello straniero che non avesse i requisiti per essere considerato un rifugiato, né gli aspetti assistenziali della sua permanenza sul territorio. L’elemento della persecuzione individuale, molto in voga oggi, trattandosi di situazioni di conflitto odi instabilità diffusa in una intera comunità di persone era del tutto assente.
Il problema è che nel corso degli anni si è passati di emergenza in emergenza, col diritto che ha provato ad aggiornarsi (ne è riprova l’introduzione della contestatissima Bossi-Fini). Ma è lo stesso concetto di emergenza ad essersi svuotato di significato. Perché l’immigrazione di massa è un fenomeno continuo, non emergenziale. Ecco perché diventa necessario il superamento dei concetti vigenti e dei cavilli giuridici antistorici.
L’ha capito persino l’Europa, col diritto d’asilo “classico” messo da parte, anche grazie alla spinta del governo Meloni, per accogliere come possibile modello condiviso l’accordo Italia-Albania che i giudici vorrebbero sabotare. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha proposto non a caso agli altri leader Ue di valutare l’adozione dello stesso modello. Hanno così “studiato” l’Italia non solo i “cattivissimi” ungheresi ma anche i gabinetti socialdemocratici e laburisti tedesco ed inglese. Francia, Danimarca, Austria e Slovenia hanno invece reintrodotto controlli alle frontiere, e gli Stati del nord Europa continuano a promuovere leggi che contrastano l’arrivo di migranti senza documenti.
Altro che populismo. Chiunque, ormai, è diventato conscio del problema. O meglio, chiunque viva al di fuori delle aule di tribunale.