Se vivessimo in un mondo normale useremmo queste righe per parlare dell’impresa straordinaria di una tennista - Jasmine Paolini- che prima tra le italiane giocherà oggi pomeriggio la finale di Wimbledon. La sua potenza, i suoi servizi, la sua energia travolgente mentre scende la china del gioco poi la risale d’un fiato, inghiottendo le rivali e sorprendendo il mondo per naturalità e talento. Invece tocca parlare di un titolo di giornale, banalizzo, di un aggettivo qualificativo, che la Gazzetta della Sport ha appiccicato addosso alla grande impresa corredandola della foto di lei e di un cuore vestito dei colori italiani.
«Bellissima!» Questo il titolo di prima pagina. Neanche il tempo di arrivare in edicola però che qualche femminista annoiata ha costruito un rigurgito di politicamente corretto attorno all’icona rosa del giornalismo sportivo, dando fuoco alle ceneri e invocando la rivoluzione copernicana dello sport femminile e la disfatta del maschio alfa. Perché bellissima e non bravissima? Questo il succo del contendere. E il dibattito capirete si è snodato attorno agli epiteti in voga al momento. Un teatrino imbarazzante – forse dovremmo dire un palleggio sfinente - tra chi definiva la scelta “vergognosa”, “misogina”, “inadeguata” e chi tirava per i capelli i maschietti retrogradi che popolano il mondo sportivo in primis, e quello dell’informazione poi.
Non vorremo spegnere i facili entusiasmi delle pennette rosse e rosa dei social o i leggiadri bollori di un pubblico sparuto in cerca di capro espiatorio, ma in questo match point che si gioca a bordocampo non c’è proprio niente di misogino, o machista, o sessista. E non perché si voglia difendere la scelta di un collega che ha riassunto così semplicemente la meraviglia di un’impresa, ma perché è una cretinata anche solo pensarlo. Basta “googolare” un attimo, operazione abbastanza semplice di questi tempi, per trovare almeno due titoli della Gazzetta che dicevano la stessa cosa in riferimento a due partite di calcio machissime che si sono giocata in Italia. La prima Italia-Svizzera (3-0) degli Europei del 2021, nella foto Insigne e Locatelli.
La seconda, più datata, una sfidissima Juve-Inter con le foto di Milito e Vucinic. Titolo di entrambe, “Bellissima” appunto, e nessuno dei campioni che si sia risentito per l’aggettivo o abbia pensato di aderire alla foga giustizialista che attraversa questi tempi bui invocando il giudice popolare e la pubblica gogna per l’apprezzamento forse retrogrado forse vergognoso forse bullizzante a tratti femminista dei rispettivi quadricipiti. Bellissima era l’impresa, come bellissima è stata quella della Paolini.
Che possa essersi sentita offesa la grande Jasmine pare poi improbabile. Ma questo era il livello dei post sui social, per far capire in che mare vacuo navighiamo: «Jasmine lo dici a tua sorella», «perché il rosso trentino è Sinner e la ragazza cresciuta a Bagni di Lucca solo Jasmine?». Il sessismo del nome? Ci tocca sentire anche questo? Il risultato è che per tutta la vigilia del match che ha già fatto la storia del tennis si è parlato solo di una pagina di giornale e di quattro pareri scemi. Non delle volate a rete, non dei servizi potenti, non di un colpo che, cito commentatori più titolati di me, fa rumore davvero e non ha nulla da invidiare a quello di Sinner, non della mente aperta e franca di questa ragazza nata da padre italiano e mamma polacca che naviga dai tornei minori a una finale di Wimbledon senza essere scalfita da eccessi di adrenalinica emozione. Gioca e basta. E vince. E se non vince si cazzia da sola, servi davvero male migliora un po’. Lei che dal suo metro e 63 di altezza ha detto un giorno sgretolando decenni di luoghi comuni e banalità: «L’altezza non è un deficit enorme... Nel tennis ci sono anche giocatrici non alte che ottengono grandi successi. Ogni cosa ha i suoi pro e i suoi contro. L’unica domanda che mi pongo è come servirei se fossi più alta. Forse servirei un po’ meglio, ma forse sarei meno agile».
Insisto: non fa un favore a nessuno questo rigurgito di femminismo. Tantomeno allo sport e alle donne (non tutte, mi pare evidente) che hanno superato ampiamente complessi e frustrazioni e vorrebbero semplicemente godersi questa finale di partita persuase di aver raggiunto il tetto del mondo senza clamore, col sorriso, e tra gli sguardi perplessi e allibiti dei signori che si erano distratti con le prodezze del campione trentino.
In Italia però siamo bravissimi a farci male da soli. Oserei dire a perderci in dibattiti retrogradi e superati dai fatti. L’attenzione sviata dalla sostanza e persa nei refoli di un confronto vetusto, il non problema che diventa un problema. E chi voleva parlare della bravura di Jasmine ha finito per cucirle addosso il refrain stantio delle quote rosa da salvare e valorizzare. Ma vi sembra che un’atleta del genere ne abbia bisogno? Tale è il desiderio di appropriarsi della talentuosa tennista, per evocare vecchi spauracchi e nemici immaginari, che nel circo mediatico che è seguito alla semifinale capolavoro si è adombrata anche l’idea che la ragazza, in quanto figlia di madre polacca (a sua volta di origini polacche e ghanesi), rappresenti sul campo l’avanguardia di una Italia solida e aperta che purtroppo non esiste ancora. Un Paese moderno multietnico organizzato che purtroppo non si è materializzato ancora. E non sarà mica perché al governo c’è la Meloni?