Gratta, gratta, il comunista viene sempre fuori. Alla direzione del Pd, la segretaria Elly Schlein, per scaldare la platea, ha dichiarato che «Giovanni Toti deve dimettersi, non ci sono precedenti di attese così lunghe per un atto dovuto. E questo vale anche per la ministra Daniela Santanché». Atto dovuto? In base a quale legge dello Stato? Nessuna. E in base a quale principio del diritto? Nessuno. Schlein meriterebbe di sfilare al prossimo gay pride o di tenere il prossimo discorso dal suo scranno alla Camera dei deputati con due belle orecchie da somaro. Per essere una aspirante premier, la signora mostra un’ignoranza giuridica imperdonabile, un senso della giustizia e degli esseri umani implicati in vicende processuali pari a quello di un boia dell’Inghilterra di Enrico VIII. Nessuna considerazione per i diritti dell’indagato, un calcio nel sedere alla presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio, una pernacchia in faccia agli elettori e alla democrazia. Ma prima della lezioncina di giurisprudenza, val la pena contestualizzare. Toti e la Santanché sono indagati, il primo da quasi quattro anni, anche se lo sa solo da due mesi, la seconda da circa un anno. Entrambi non sono neppure rinviati a giudizio, ma lui è agli arresti domiciliari e non può esercitare la funzione di presidente della Regione Liguria, perla quale è stato eletto con largo margine di consensi, mentre lei è di fatto da dodici mesi un membro del governo dimezzato. Sono dei sospettati, nei fatti e tecnicamente, non dei colpevoli.
Schlein però pretende che si dimettano sulla semplice base dei teoremi della magistratura inquirente, che li ritiene colpevoli, lui di corruzione, lei di truffa. Una carica pubblica costretta a lasciare perché un elemento dello Stato, nella fattispecie una Procura, punta l’indice, sulla base di illazioni, ricostruzioni da verificare, convinzioni personali, forse anche antipatie o simpatie politiche, che stanno nella natura umana e quindi appartengono anche a chi indossa la toga. Chi sostiene una tesi simile denota una cultura antidemocratica e primitiva, nella quale un uomo può decidere a capriccio delle sorti di un altro. Accadeva così nell’Unione Sovietica di Giuseppe Stalin, dove bastava una delazione per sparire dalla sera alla mattina, con decenni di gulag per i più fortunati e torture mortali per gli altri, per confessare anche quello che non esisteva. La punizione senza processo. Questo invoca il segretario del Pd per il nemico politico Toti. Prima la gogna dell’accusa, poi la tortura degli arresti senza adeguati fondamenti giuridici, infine la condanna prima del giudizio, ovverosia le dimissioni, che rendono poi inutile l’accertamento della verità. È questo il ritorno alle origini che la Schlein ha in mente per il suo partito, che si ostina a chiamare democratico? Forse sulle nuove tessere, oltre a mettere la faccia di Enrico Berlinguer, dovrebbe stampare direttamente anche il vecchio nome della ditta: Partito Comunista. Così sarebbe tutto più chiaro e risolverebbe anche il problema della concorrenza a sinistra di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli. Tante volte Libero in questi due mesi di martirio del governatore ligure ha argomentato sulla fragilità dell’impianto accusatorio che lo costringe agli arresti e all’inattività e sulla debolezza dei presupposti giuridici della sua condizione.
Non è il caso oggi di ripeterli; ci sarà modo la prossima settimana, quando il Tribunale del Riesame tornerà sulla pratica e, se sarà emesso un verdetto sfavorevole al governatore, ne riparleremo anche per l’eventuale giudizio in Cassazione, a settembre. Oggi preme sottolineare che il segretario del Pd ha detto una bestialità di tali dimensioni che, se l’avesse pronunciata qualcuno del centrodestra nei confronti di un governatore dem, avremmo già schiere di costituzionalisti pronti a sbatterlo nel girone dei dannati e di raffinati editorialisti in lizza per crocifiggerlo. A vederla così, si potrebbe anche pensare che ClarabElly sia una manettara naif, non a sua insaputa ma inconsapevole di quello che significhino le sue parole. E sarebbe comunque gravissimo. L’impressione invece è che il fare sbarazzino nasconda intenzioni diaboliche e pericolose, del tutto antitetiche a ogni concetto democratico. Basta vedere come affronta la politica: quello che fa l’avversario, dal premierato all’autonomia, dalla sanità all’occupazione, dalla separazione delle carriere dei magistrati alle scelte etiche, alla politica estera troppo atlantista, è sempre tutto sbagliato. Il suo Pd invece è sempre nel giusto e, se affiora qualche macchia, è comunque responsabilità di chi c’era prima: persone esecrabili, che però lei a parole combatte ma nei fatti tiene attaccate per succhiare la loro forza elettorale e galleggiare, si chiamino De Luca, Emiliano, Zingaretti, Bonaccini, Gori, tutti messi alla staffa e candidati per reggere l’altarino di lei.
A Genova, per chi ha seguito l’inchiesta, il porto non viene gestito dalla Regione ma da un Comitato, dove il Pd dice la sua. Tra i terminal e i moli sotto la Lanterna, gli uomini che contano vengono tutti dalla sinistra o sono stati da essa indicati, a cominciare da Paolo Emilio Signorini, il super tecnico e super indagato, per due volte nominato capo dell’Autorità da ministri dem e poi dal partito spostato nel lucroso ruolo di amministratore delegato della società di multi-servizi Iren, un poltronificio progressita. Ma tanti sono gli scheletri nell’armadio del partito di Elly in Liguria, dei quali la signora, se è in vena di pretendere dimissioni, potrebbe chiedere la testa. Un segretario è libero di imprimere la linea che preferisce al partito ma se la Schlein andrà avanti con questa deriva giustizialista, da Terrore francese, la smetta almeno di ergersi a paladino della Costituzione e dei diritti che la Carta garantisce.