Fausto Carioti: tredici Paesi con l'Italia "No ai veti europei di Macron e Scholz". E i socialisti tremano
Elly Schlein e gli altri socialisti europei che pongono veti sulla destra di Giorgia Meloni sono stati messi all'angolo dai popolari, la famiglia cui appartiene Forza Italia, unica della "coalizione Ursula" (Ppe, socialisti e liberali) ad essere uscita rafforzata dal voto europeo. È la dura legge della politica: se perdi, chi vince bussa alla tua porta e reclama qualcosa che sino a ieri era tuo. È ciò che hanno fatto i leader appartenenti al Ppe lunedì sera, durante l'incontro dei ventisette capi di Stato e di governo. A quel tavolo, il patto per la spartizione del potere che il socialista Olaf Scholz e il liberale Emmanuel Macron consideravano blindato si è incagliato su due scogli. Uno è la premier italiana, che ha respinto l'intesa confezionata dai due grandi sconfitti delle elezioni europee. Come racconta alla testata Politico.eu un alto funzionario coinvolto nelle trattative, «la reazione più forte è stata probabilmente quella espressa da Giorgia Meloni; molto ferma, molto dura, nel criticare quelle negoziazioni tra le tre famiglie politiche». Oggetto dei suoi strali, oltre a Scholz e Macron, sono stati i primi ministri della Polonia (Ppe), dei Paesi Bassi (liberale), della Grecia (Ppe) e della Spagna (socialista), per averla fatta attendere insieme ad altri mentre preparavano un accordo che poi hanno presentato come un fatto compiuto.
Una posizione, quella di Meloni, condivisa da altri capi di Stato e di governo presenti. Ieri si è saputo che dodici-tredici di loro sono rimasti colpiti («scioccati», raccontano fonti europee) dal tentativo messo in atto da Scholz e Macron per isolare un capo di governo che, a differenza di loro, ha vinto le elezioni ed è reduce dall'organizzazione di un G7 che ha portato ottimi risultati. Al punto che, quando Meloni ha espresso riserve per il metodo usato dai due e ha definito le loro proposte come «un buon inizio per la discussione» e nulla più, ha incassato il «forte consenso» di metà dei leader presenti. L'altro scoglio sono i popolari, che forti dei loro numeri (sono il primo partito anche nel nuovo parlamento, col 26% dei seggi, e contano undici leader europei su ventisette), reclamano una quota di potere sinora riservata ai socialisti. Vogliono che la seconda poltrona più importante della Ue, quella di presidente del Consiglio europeo, tradizionalmente assegnata ai secondi arrivati, e dunque alla famiglia dei socialisti (136 eurodeputati contro i 190 del Ppe), sia divisa a metà durante la legislatura: occupata due anni e mezzo da un socialista e due anni e mezzo da un popolare. Richiesta che gli alleati europei di Schlein, a microfoni spenti, bollano come una «provocazione», una prova di «arroganza». Ma non è più arrogante della loro pretesa di tenere i conservatori guidati da Meloni, con i loro 77 eletti (ai quali già oggi se ne aggregheranno altri), fuori dalla stanza dei bottoni. I popolari sono convinti di poter mettere all'angolo i socialisti anche perché occupano una posizione centrale: la situazione consente loro di stringere intese sia a destra che a sinistra. Molti guardano con favore ad un accordo con Meloni e i suoi alleati e li preferiscono ai Verdi europei, che secondo i socialisti e i liberali sono invece quelli ai quali von der Leyen, o chiunque guidi la prossima Commissione, dovrebbe chiedere i voti, visto che la "maggioranza Ursula", da sola, potrebbe non bastare per avere la fiducia delL'Europarlamento.
Tra chi dice che «serve aprire le porte della maggioranza ad Ecr, non ai Verdi» c'è Antonio Tajani, che del Ppe è uno dei leader. Ieri il segretario di Forza Italia ha denunciato «il tentativo di imporre delle scelte da parte di alcune forze che hanno perso le elezioni, di imporre la legge del perdente». E c'è il tedesco Manfred Weber, presidente del gruppo del Ppe, pure lui chiarissimo: «È un'Europa di centrodestra quella per cui i cittadini europei hanno votato. I liberali, i socialisti e i Verdi sono i grandi perdenti di queste elezioni. E su questo devono riflettere tutte le persone proposte per gli incarichi. Non esiste la possibilità di andare avanti come se nulla fosse successo». Dinanzi a questi tentativi di ridimensionare le loro ambizioni, i socialisti rispondono facendo muro. Ribadiscono di essere disposti a sostenere la candidatura di von der Leyen solo «a condizione che i negoziati non coinvolgano famiglie politiche di estrema destra». Da parte dell'Italia non ci sono veti sulla conferma della presidente uscente alla guida della Commissione. Ma abbondano i dubbi (anche dentro al Ppe) sul portoghese Antonio Costa, che i socialisti vogliono fare presidente del Consiglio Ue, e in misura minore sulla liberale estone Kaja Kallas come Alto rappresentante della Ue per la politica estera. E siccome vige la regola per cui «Nothing is agreed until everything is agreed», niente è concordato finché tutto non è concordato, l'assegnazione dei tre incarichi "top" della Ue resterà bloccata fin quando l'Italia e i Paesi con cui Meloni sta facendo asse non saranno soddisfatti dell'intesa complessiva. Che per il governo di Roma deve includere un commissario Ue che abbia un portafoglio di primo piano come Economia, Concorrenza o Mercato interno- e la vicepresidenza della Commissione.