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Mario Sechi: la revolucion di Bergoglio

martedì 28 maggio 2024

3' di lettura

Non è un caso che oggi i più grandi avversari del politicamente corretto siano due argentini con un «caliente» sangue italiano: Javier Milei e Jorge Mario Bergoglio. Il presidente dell’Argentina ha vinto le elezioni con la motosega e un linguaggio ardente, colorato, che va dritto al punto. Cito Milei perché in questa storia c’è una questione di carattere, di temperamento, di latitudine, di pensiero non ancora annientato dal conformismo, una «revolución».

Papa Francesco con il passare del tempo ha accentuato la sua insofferenza verso il dominio del relativismo e la falsificazione della parola. Anch’egli va dritto al punto. Nel 2013 il Pontefice esortò i fedeli a non usare «un linguaggio socialmente educato» che diventa «ipocrisia», ricordando che «la mitezza che Gesù vuole da noi non ha niente, non ha niente di questa adulazione, con questo modo zuccherato di andare avanti. Niente!». Francesco faceva l’esempio dei bambini che con la loro innocenza sanno parlar chiaro, fino all’uso della parolaccia, esibita con la naturalezza della divertita verità. Se queste sono le premesse, la frase che viene attribuita a Bergoglio a proposito della presenza degli omosessuali nei seminari («c’è già troppa frociaggine») può sorprendere gli imparruccati e far scattare la ronda della buoncostume del linguaggio, ma è il Papa argentino che si esprime in modo netto (con le parole della lingua popolare, nel romanesco dei sonetti del Giuseppe Gioacchino Belli, fustigatore della Roma dei sei Papi in cui visse dal 1791 al 1863), trasmette le sue idee (con il dito alzato, dicono) su come devono essere selezionati i seminaristi.

È un tema che tocca il cuore della Chiesa, le sue regole, i doni e i sacrifici che si impongono nella scelta del sacerdozio (a cominciare dal manifestarsi della vocazione e dalla scelta del seminario), la sopravvivenza dell’istituzione che è fatto religioso, fede, costume. L’Italia è il centro di questa storia millenaria. E nonostante la secolarizzazione, il crollo dei cattolici praticanti e l’ingresso in un’era di neo-paganesimo (leggere il libro «La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo», della teologa Chantal Delsol) è una dimensione viva, presente e per questo l’intervento di Bergoglio appare come un lampo, potente e drammatico.

Il contesto è fondamentale, va sottolineato che il Papa parlava durante un incontro a porte chiuse di fronte a oltre 200 vescovi, e va ricordato che le sue parole non sono una semplice esortazione, ma un ordine, perché il Papa è pastore e dottore della Chiesa, infallibile quando si esprime “ex cathedra”. Come scriveva Pio IX nella Costituzione Dogmatica “Pastor Aeternus”, il Pontefice «gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa». Chi ha rivelato le sue parole punta a demolirne l’autorità, ma non ha fatto i conti con la storia che fa ampi giri e resta imprevedibile.

Chi s’acciglia per le parole di Francesco, chi si scandalizza e batte il martello del tribunale laicista sull’espressione (come se fosse una questione di bon ton e legge Zan) finisce per perdere di vista la sostanza: il Papa si preoccupa del domani della Chiesa e lo fa guardando (anche) agli scandali del passato, ai processi per gli abusi sessuali, alle campagne di stampa, alle richieste miliardarie di risarcimenti. Sono i fatti impaginati in cronaca ad aver scosso l’albero, per questo la Chiesa ha dovuto cambiare rotta, chiedere scusa, prendere decisioni dolorose. Fu Papa Benedetto XVI nel 2005 a tracciare una linea di chiusura ai gay, stabilendo che «la Chiesa, pur rispettando profondamente le persone in questione, non può ammettere al Seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l'omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay». Francesco confermò «l’istruzione» di Ratzinger nel 2016. Nella Conferenza episcopale italiana c’è chi vorrebbe cambiarla, attenuarla, tenere le porte aperte, ma Bergoglio è il Papa che viene da lontano, primo sudamericano Pontefice, primo gesuita sul soglio di Pietro, è l’argentino che parla chiaro, non si può prendere «à la carte», come fanno gli intellettuali progressisti quando s’illudono di manipolarne il pensiero. Bergoglio è l’infallibile che i vescovi vorrebbero far fallire.

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