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Luca Beatrice: riprodurre le nudità non è un oltraggio alla donna

di Luca Beatrice giovedì 4 aprile 2024

3' di lettura

Kalos kai agathos. Così dicevano i greci. Rappresentare un corpo bello significava, fin dalla classicità, attribuirgli un valore etico. Mens sana in corpore sano, ribadirono i latini, curare il proprio fisico equivaleva a dedicare la stessa attenzione al cervello, all’apprendimento. Per secoli è andata così e infatti la storia dell’arte è ricca di pitture, sculture, statue nelle pubbliche piazze, che celebrano la bellezza maschile e femminile. Nella tradizione un corpo tonico e atletico, prima di tutto per rispetto verso se stessi, non preclude mai a un’intelligenza e a una cultura raffinata. Quando si tratta di rappresentazioni femminili sono due gli elementi che tornano spesso: la fecondità e il richiamo sessuale, in quanto è fuori di dubbio che siano stati particolarmente attraenti in diverse epoche della storia, proponendo peraltro modelli muliebri diversi per bellezza a seconda delle epoche, mentre quelli degli uomini risultano tutto sommato più standardizzati e prevedibili.

Le cose cambiano, talora si inceppano, e la narrazione presente (anche se non da ieri, qualche indizio c’era già stato nell’epoca postsessantottina con il diffondersi capillare dei movimenti femministi) richiede una netta separazione tra le doti del corpo magnificate in particolare da artisti ed esecutori uomini e quelle dell’intelletto, che da contraltare propongono un’altra immagine della donna svuotata della propria fisicità, quando non addirittura umiliata. Come è rappresentato il femminile nella tradizione, insomma, proprio non va, prima di tutto per numeri e percentuali ancora lontanissimi dalla parità tra statue, vie dedicate a uomini e donne, ma soprattutto per il punto di vista: in particolare nell’arte pubblica, che supera la protezione del museo per rivolgersi a tutto il pubblico senza distinzioni di sorta, si continuano a vedere troppe donne nude, scollacciate, ipersessualizzate. E questo a certuni/e dà molto fastidio.

A rilanciare il dibattito, che di recente ha investito anche il saggio di Tomaso Montanari Le statue giuste (la sua teoria, in sintesi, non distruggere ma ricontestualizzare e spiegare), ieri è intervenuto Gian Antonio Stella sulle colonne del Corriere della Sera, additando come negativi diversi esempi di sculture nelle piazze. Le giornaliste Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli sono raffigurate completamente nude: che c’entra questo con la loro tragica storia? Anche altri soggetti, che non hanno un nome e un cognome, la Spigolatrice di Sapri, il Monumento al Tortellino di Castelfranco in Emilia, la Lavandaia di Bologna o la Violata di Ancona, esaltano velature e trasparenze degne di una pellicola soft-core: fianchi prosperosi, seni abbondanti, natiche generose, il tutto celato il meno possibile.

ATTRAZIONI TURISTICHE
Ha fatto storia il caso della statua che venne eretta a Porto Cesareo nel 2002 e dedicata a Manuela Arcuri. Polemiche l’hanno accompagnata per anni, nel 2010 fu tolta, poi rimessa a posto dopo averle restaurato il fondoschiena che chiunque passasse in Salento voleva toccare perché porta fortuna. Le troppe carezze hanno causato un foro sul seno destro della statua di Giulietta a Verona, la seconda versione rifatta da Novello Finotti nel 2014. Non sarà un capolavoro, ma attrae i turisti di tutto il mondo, anche se i meno dotati di ironia e leggerezza accusano di sessismo i palpatori universali.

Niente da fare, è il richiamo sessuale ad attrarre lo sguardo, perché l’arte ha sempre giocato con l’illecito, mettendo in scena ciò che sta fuori dalla scena e suggerendo la malizia della visione proibita, da buco della serratura. Concetto su cui si basa uno dei capisaldi del concettuale, ovvero l’Etant Donnez di Marcel Duchamp, opera postuma che contiene in sé una quantità di misteri insoluti, per non dire de L’origine du monde di Gustave Courbet, invisibile fino agli anni ’80 del secolo scorso. Non si tratta in questi casi di arte pubblica, ma di installazioni e pittura “protetti” dal contesto museale, dove il protagonista assoluto è l’organo sessuale femminile, peraltro rappresentato da maschi.

Ciò che non riusciamo a capire è perché un bel corpo con una sensualità pronunciata dovrebbe offendere il cervello della medesima. Questo manicheismo danneggia vieppiù l’immagine della donna, che potrebbe facilmente includere le due virtù di bella e buona. Certe figure, peraltro, sono archetipiche, appartengono alla storia della nostra civiltà e non è affatto detto che eliminandole o sostituendole con altre si elimini il problema. Basti pensare al cinema: la scena clou arriva quando l’attore o l’attrice si spogliano, la bellezza è ciò che si vuol vedere ancor prima del valore. Additare l’immagine femminile particolarmente sessualizzata come elemento negativo significa offendere la bellezza dei corpi, insinuando (e non siamo noi a farlo) che sotto il vestito non ci sia niente.

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