Firmò il contratto di esclusiva per la Deutsche Grammophon a 29 anni. L’ambitissima etichetta gialla era un’ulteriore consacrazione di Maurizio Pollini nel Gotha del pianismo internazionale. Appena diciottenne aveva d’altronde sbaragliato ogni concorrenza al Premio Chopin di Varsavia, eppure al colosso tedesco propose come primo disco due pagine da brividi del repertorio novecentesco: i proibitivi Trois mouvements de Pétrouchka di Igor Stravinskij, che neanche l’autore aveva mai avuto l’ardire di eseguire, e la virtuosistica e trascinante Sonata n. 7 op. 83 di Sergej Prokof’ev.
Con quel disco su misura, che riportava su fronte e retro della copertina il suo profilo e il suo volto ritratti da Paolo Gianbarberis, Pollini si aggiudicò subito il Grand Prix du disque di Parigi. Spesso nel pianismo, a partire dall’istrionico Liszt che codificò la liturgia del récital, si ricorre all’iperbole per disegnare con le parole quello che non si vede e non si sente. Di fronte a Pollini le iperboli si sono giustamente rincorse. Nell’aspetto ricordava il suo autore preferito, Fryderyk Chopin: viso magro, dita sottili, tanto ma tanto carattere a irrorare un talento puro. Nato a Milano il 5 gennaio 1942, città in cui si sarebbe diplomato al Conservatorio “Verdi”, grazie alla madre Renata Melotti si accostò agli 88 tasti del pianoforte ad appena cinque anni, e quell’amore sarebbe durato tutta la vita. Se a undici anni era già in grado di tenere concerti in pubblico, non era solo perché era un enfant prodige.
Risale a quell’età l’incontro fortuito a un corso di armonia con Marilisa Marzotto, anche lei pianista, unico e grande amore della sua vita, che avrebbe poi sposato nel 1968 e da cui avrebbe avuto Daniele, pianista e compositore. Ben consigliato dal maestro Carlo Vidusso e seguendo la propria indole, da ragazzo centellinò le apparizioni a tutto vantaggio dello studio, puntando decisamente verso l’alto. E nel 1960, a Varsavia, arrivò la consacrazione internazionale con la conquista del primo premio al concorso Chopin.
LA PROFEZIA
Si racconta che proprio allora, ascoltandolo, così giovane, così sicuro dei mezzi tecnici, così maturo dal punto di vista interpretativo, Piero Rattalino abbia vaticinato per il giovane talento milanese un radiosissimo futuro, scritto nelle stelle del firmamento delle sette note, e al vertice del mondo. Invece di capitalizzare quella vetrina, come lui stesso disse, scelse di diventare «un musicista migliore» frequentando le lezioni di Arturo Benedetti Michelangeli.
Quindi l’incontro con Arthur Rubinstein, un mito del pianismo, di cui divenne amico, per sposare finalmente a metà degli Anni ’60 la carriera concertistica ai più alti livelli e nelle sale da concerto più prestigiose al mondo: debutto negli Stati Uniti nel 1968, in Giappone nel 1974, le collaborazioni con i più celebrati direttori d’orchestra. Con Claudio Abbado realizzò un sodalizio artistico fecondo, che per di più poggiava su una solida amicizia che risaliva agli anni verdi. Un requisito, questo, che per lui significava molto, smentendo il luogo comune che suonare assieme ed essere amici è una dissonanza non armonizzabile.
Di Maurizio Pollini si è scritto che incarnò il pianismo dei grandi autori dell’Ottocento: Chopin, ovviamente, Ludwig van Beethoven, Franz Schubert e Robert Schumann, più romanticismo che tardo classicismo, ma anche una prospettiva ampia che abbracciava la contemporaneità a partire dal Novecento (compresa la Seconda scuola di Vienna: Arnold Schönberg, Alban Berg, Anton von Webern) per arrivare alle avanguardie storiche. Interpretò pagine di Pierre Boulez, Karl-Heinz Stockhausen, Luciano Berio, per lui hanno scritto Luigi Nono («...Sofferte onde serene...»), Salvatore Sciarrino (Quinta Sonata), Giacomo Manzoni (Masse: Omaggio a Edgar Varèse). Un interprete a tutto tondo che seppe dare un’impronta personalissima all’esecuzione/interpretazione disegnando nuove sfaccettature al repertorio chopiniano e beethoveniano e alle nuances di Claude Debussy, grazie anche agli Steinway preparati per lui da Angelo Fabbrini per sonorità e impasti inediti. Chi lo conosceva ne parlava non come un sognatore che naviga nella dimensione tutta particolare del pianismo, ma di un musicista dalle idee lucide e dalla concretezza razionale delle linee interpretative forse derivategli dal padre Gino, architetto, che però nelle sale da concerto trasfigurava nel soffio dell’arte.
LA DIREZIONE D’ORCHESTRA
Il Teatro alla Scala di Milano ne ha annunciato la scomparsa con queste parole: «uno dei più grandi musicisti del nostro tempo e un riferimento fondamentale nella vita artistica del teatro per oltre cinquanta anni». Tutto vero, niente retorica. Aderente anche l’immagine che ha dato di lui il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, definendolo «poeta del pianoforte» e sottolineando che «ha dato lustro all’Italia». Non solo all’Italia, per la verità, perché ha dato lustro al mondo universale della musica, come pochi altri italiani di una generazione straordinaria. Maurizio Pollini si dedicò anche alla direzione d’orchestra, ma la bacchetta non metterà mai in ombra la tastiera. A febbraio ha annunciato il ritiro dalle scene per «severe difficoltà respiratorie». Il suo cuore e il suo respiro si sono fermati, ma non il battito delle emozioni e il respiro della sua musica, consegnati ai dischi e ai récital,