Nell’Italia del politicamente correttissimo un rinvio a giudizio per istigazione all’odio razziale non si nega a nessuno. Figuriamoci se a questa regola poteva sfuggire il giornalista più irriverente e senza peli sulla lingua del panorama giornalistico italiano, Vittorio Feltri, e il giornale che più di tutti ne ha incarnato carattere e genialità, Libero. Correva l’anno 2019 quando il fondatore e l'allora direttore del nostro quotidiano, prendendo atto di una situazione “fattuale”, come direbbe lui, titolò in prima pagina «Comandano i terroni». L’avesse mai fatto! La gran cassa borbonica si mise subito all’opera con dimostrazioni d’indignazione e di denunce e insulti al direttore e al nostro quotidiano. Ci fu chi, come l’allora vicepremier Luigi Di Maio (napoletano) minacciò i tagli ai fondi all’editoria. Anche l’Ordine dei giornalisti del quale, fatalità, il presidente era Carlo Verna, napoletano e quindi meridionale pure lui, aprì un provvedimento disciplinare contro Feltri.
Tra le varie denunce presentate, quella che ha portato al processo è stata quella di Saverio De Bonis, un ex senatore all’epoca dei fatti iscritto al gruppo misto, che contestava a Feltri una serie di articoli e di interventi televisivi dal 2017 al 2020 che, secondo il querelante, sarebbero stati diffamatori nei confronti dei meridionali. Da qui il rinvio a giudizio che, con rito abbreviato, vedrà Vittorio Feltri in alla sbarra a Roma il prossimo 24 settembre.
Ma cosa aveva scritto Libero di tanto grave? Nulla. Anzi, aveva semplicemente fotografato uno stato politico-amministrativo che il Paese stava vivendo in quel momento: il presidente della Repubblica era (ed è) Sergio Mattarella, palermitano e dunque meridionale; il presidente del Consiglio era Giuseppe Conte, pugliese, dunque meridionale; il presidente della Camera era Roberto Fico, napoletano, dunque meridionale. Insomma tre cariche istituzionali su quattro erano appannaggio di meridionali. Si “salvava” solo la presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, veneta. Insomma... in quel periodo “comandavano i terroni”. Intercettato al telefono da Libero, Vittorio Feltri, che con la consueta ironia commenta così il suo rinvio a giudizio: «Non capisco, ho detto che comandavano, i terroni, mica che rubavano... A me dire che uno comanda non sembra offensivo, la mia era una constatazione priva di malevolenza. Per questo mi sembra ridicolo finire a processo».
La pensa così anche Augusto Minzolini, editorialista de Il Giornale: «Questo è un Paese malato di querelle, dalla voglia di sporgere querela a ogni piè sospinto. Il che determina, da una parte, un problema grosso di ingolfamento della giustizia, lunga proprio perché i magistrati sono occupati dietro a queste bazzecole, dall’altra si mortifica il dibattito e si dà l’idea che questo non sia un paese dove c’è libertà di opinione, a meno che questa non interferisca col pensiero dominante». E ancora: «Il processo a Feltri? È una cosa folle ed è successo anche a me, querelato dall’allora sindaca di Roma Virginia Raggi per un mio tweet contro la sua amministrazione e le buche nel 2017, dopo esser caduto tre volte dal motorino. Ho un processo su questo, è una cosa seria? Il paese è bloccato e se qualunque diatriba culturale, politica o sociale diventa elemento di querela non si va da nessuna parte. Le urgenze sono altre e se devono esser presentate querele dovrebbero essere su offese reali. Ognuno la può pensare come vuole, e invece ormai è tradizione del nostro paese querelare qualunque cosa, creando problemi grossi dal punto di vista del meccanismo giudiziario. Non ne faccio una questione ideologica, sia chiaro, semplicemente mi chiedo come si possa, coi tempi della nostra giustizia, stare appresso a queste bazzecole. Non si può imbastire un processo sul pensiero».
Di avviso contrario lo scrittore napoletano Maurizio De Giovanni, che addirittura dice di accogliere con «soddisfazione, il fatto che nella nostra Italia l’espressione non di certe idee ma di certi pregiudizi offensivi, certamente divisivi e potenzialmente violenti, con risvolti di gravissima discriminazione territoriale, sia ancora passibile di reato».