Fossimo nei panni dei dirigenti del centrosinistra, leggeremmo con attenzione l’intervista che ieri Arturo Parisi ha rilasciato a Fabio Martini re da un’alleanza occasionale ed episodica, concepita solo “contro le destre” (come in Sardegna), e desiderano invece tentare un’operazione politica più seria. Serve un metodo che di per sé prefiguri una prospettiva, uno sbocco, una convivenza ordinata: e Parisi rilancia l’idea delle primarie. Sono convinto da anni che anche a destra un ragionamento del genere avrebbe senso. Intendiamoci: il centrodestra una coalizione ce l’ha dal 1994, governa oggi a Roma e in 16 regioni, e dunque non è assolutamente nella condizione caotica degli avversari. Ma chiunque abbia sensibilità politica capisce che il momento è delicato: tra i tre partiti della coalizione le frizioni non mancano, e non sarà semplice, né prima né dopo le Europee, trovare un modo di comporre le differenze che sia accettato da tutti, compatibile con il peso elettorale di ciascuno, e al tempo stesso rispettoso di ogni componente.
Chi scrive è un vecchio fan di una prospettiva (mettiamoci subito il cuore in pace) che agli attuali dirigenti del centrodestra non piace: quella di un unico Partito Repubblicano all’americana, o di un unico Partito Conservatore come in Gran Bretagna, dove ogni sensibilità possa convivere e competere. Ma oggi non è nemmeno il caso di parlarne: ci sono tre partiti orgogliosamente distinti. I quali però devono coesistere e “pesarsi”, ed evitare che la logica iperproporzionalista delle europee avveleni la quotidianità e in ultima analisi danneggi l’azione di governo. Come se ne esce? Partendo da una caratteristica degli elettori di centrodestra. Essi, pur così diversificati per estrazione culturale e sociale, sono già largamente uniti: possono preferire uno specifico partito, ma hanno simpatia (e certamente nessuna ostilità preconcetta) verso gli altri; hanno visioni non solo compatibili ma basate su valori comuni (difesa della libertà, della proprietà, dell’iniziativa privata ecc.). Si tratta di essere uniti su un paio di cose: un nucleo programmatico essenziale e il candidato alla guida della coalizione ogni quattro -cinque anni.
Su tutto il resto, ciascuno si tenga le proprie idee e convinzioni: più libere. Le divisioni, le differenze, le diversità si gestiscono così: non negandole e nemmeno esaltandole in modo fazioso, ma riconoscendole, garantendo spazio a ciascuna nuance e sfumatura. Un passo in più potrebbe essere quello - a ogni livello: comunale, regionale, e poi nazionale alla vigilia delle prossime politiche- di prevedere elezioni primarie per scegliere il candidato alla guida dello schieramento.
NO AL METODO PD
Se fosse per i miei gusti, sconsiglierei di adottare il metodo seguito in passato dal Pd, che peraltro ha creato dubbi sull’identità dei partecipanti al voto, e che – nella migliore delle ipotesi – si è limitato a “fotografare” la forza di partiti e componenti, per favorire le spartizioni interne e l’assegnazione di cariche e incarichi. Il fatto è che il Pd italiano non ha mai adottato il modello delle primarie statunitensi, ma si è limitato a una consultazione in un unico giorno, che fatalmente porta con sé la mera ratifica del quadro già esistente. Un modo come un altro per appiccicare un sigillo popolare a decisioni già assunte in altra sede. Una ratifica. Una messa di incoronazione. Al centrodestra proporrei invece l’adozione vera del modello americano, con elezioni primarie sequenziali (cioè a tappe, territorio per territorio), con un processo politico (e un dibattito nel Paese) che dura mesi, e una convention finale che prende atto del risultato e lancia la campagna elettorale vera e propria.
La metafora più adatta sarebbe quella ciclistica: organizzare una sorta di Giro d’Italia, in cui si voti regione per regione. Se si facesse domenica dopo domenica, per coprire le venti regioni servirebbero cinque mesi; accorpando due regioni alla volta, basterebbero due mesi e mezzo. Quali sarebbero i vantaggi di un percorso simile? Intanto, non solo tutti gli elettori di centrodestra sarebbero coinvolti, ma anche tutti i territori, e ciascun candidato dovrebbe seriamente impegnarsi per parlare a tutta Italia. Non solo: non ricchire il proprio messaggio. Un eventuale outsider bravo e capace non sarebbe costretto a un ruolo inevitabilmente marginale, ma potrebbe far crescere il proprio peso, portare nella discussione nuovi temi e istanze utili a tutta la coalizione. Potrebbe esserci la vittoria finale del favorito della vigilia oppure una sorpresa: comunque, essendo stati tutti coinvolti, nessuno potrebbe chiamarsi fuori alla fine. E tutti si sentirebbero rappresentati dal “campione” scaturito da una simile competizione. Di più: adottando il modello della convention finale all’americana, il vincitore potrebbe scegliere un vice, un “numero due” con cui comporre il ticket per la campagna elettorale da condurre contro il centrosinistra: realistica mente, dando voce e volto a un’altra area culturale che faccia sentire pienamente coinvolti anche gli sconfitti della gara delle primarie.
Se invece ci si limita (com’è sempre avvenuto) a indicazioni in stanze chiuse, l’esito rischia di essere quello a cui assistiamo in queste settimane, nella spesso spigolosa con tesa tra Fratelli d’Italia e Lega: con nodi non sciolti che si aggroviglia no e tensioni partitiche che si scaricano sul governo. Molto meglio, a mio avviso, se la competizione per la guida di uno schieramento venisse resa ariosa, aperta, carica di prospettiva, di idee (e anche di umanità e di rispetto reciproco), aiutando i leader a con durre una trasparente campagna pubblica, capace di coinvolgere cittadini, militanti, intellettuali, categorie produttive, e indirizzando la lo ro sfida positiva verso l’esterno, cioè verso l’Italia, anziché verso l’interno, cioè verso un mero regola mento di conti nel perimetro della coalizione. Chissà: oggi è solo uno stimolo. Ma domani - a partire, una volta passate le Europee, dai successivi appuntamenti elettorali per città e regioni - potrebbe trattarsi del modo migliore per garantire tenuta e insieme elasticità della coalizione. È un piccolo uovo di Colombo, su cui speriamo che Fdi, Fi e Lega riflettano.