Prendiamo subito il toro per le corna: l’affaire Verdini (padre e figlio) non è una faccenda da sottovalutare. Da due giorni (e presumibilmente è solo l’inizio) i quotidiani amici della sinistra, cioè quasi tutti, già sparano a palle incatenate. Nella timidezza del centrodestra televisivo (qualunque cosa ciò possa voler dire), imperversa la linea ultragiustizialista di conduttori e trasmissioni vicini al Pd e ai Cinquestelle.
Peraltro, va detto che le accuse (corruzione e turbativa d’asta) non possono certo mettere di buon umore un cittadino comune. E la narrazione che immediatamente è stata costruita, attingendo alla vasta letteratura esistente da anni su Verdini padre (aggiornata ed estesa a suo figlio), è altamente suggestiva, di corrosiva efficacia. Cosa giunge infatti agli occhi e all’orecchie di un lettore o di un telespettatore? L’idea di una famiglia di abilissimi volponi entrati nel pollaio delle commesse dell’Anas, con conseguenze facilmente immaginabili. Intendiamoci. A nessuno si può chiedere di mettere mani sul fuoco, e qui nessuno intende farlo. Ma – questo sì – in uno stato di diritto l’accertamento della colpevolezza di chicchessia dovrebbe avvenire in un processo, nel confronto ad armi pari tra accusa e difesa davanti a un giudice terzo.
COSA NON TORNA - E allora ecco il primo problema che emerge, il primo anello che non tiene in questo affaire. Qui non c’è ancora alcun processo: anzi, siamo appena nella fase delle indagini preliminari, e quindi tecnicamente non sappiamo nemmeno se ci sarà un giudizio e chi eventualmente dovrà andarci. E invece (in quarantott’ore, ma sembra un’eternità) ci è già stata riversata addosso una valanga di elementi, tutti in chiave unidirezionale, tutti in senso accusatorio. La verità è che ci siamo ormai mitridatizzati – una goccia di veleno al giorno – alla logica del processo mediatico.
E quindi ci pare normale che il collaudato e oliatissimo sistema che unisce procure e quotidiani manettari emetta sentenze di condanna mediatica prim’ancora di una pronuncia di rinvio a giudizio.
Ripensate per un istante alle rivelazioni di Luca Palamara sulle lotte tra le correnti di magistrati. In teoria – esistendo in Italia, formalmente, un sistema di processo accusatorio – le correnti si sarebbero dovute azzannare per accaparrarsi la guida dei tribunali, cioè dei luoghi dove si emettono le sentenze. E invece no: tutta la lotta era ed è per la guida delle procure. E come mai?
Perché – siccome di fatto siamo in regime di processo mediatico – il giudizio vero e proprio quasi non conta più. Quello che conta è chi spara il primo colpo: e cioè la procura di turno più il quotidiano amico.
Lo schema è ormai un format fisso: avvio dell’inchiesta, conferenza stampa del procuratore, nomignolo accattivante assegnato all’indagine per popolarizzarla, diffusione integrale di intercettazioni e dettagli altamente sputtananti. Con un “trattamento” del genere, protratto per giorni-settimane-mesi, cosa volete che importi, molti mesi o anni dopo, dello svolgimento del processo, del dibattimento, dell’emersione delle tesi difensive? La difesa è ridotta a un flatus vocis, a un balbettio, a un rumore di fondo, a qualcosa che arriverà – in tutti i sensi – dopo, quando già la convinzione popolare si sarà irreversibilmente sedimentata.
Da questo punto di vista, si capisce bene come mai il circuito delle procure e del giornalismo manettaro si lamenti dell’emendamento-Costa, quello che, rispetto alla situazione attuale, eviterà per lo meno la diffusione integrale delle ordinanze prima dell’udienza preliminare. Sarà possibile sintetizzarne i contenuti, non pubblicarli per intero.
E loro si dolgono, perché, abituati come sono a vincere 5-0 a tavolino prim’ancora che la partita processuale inizi, non tollerano l’idea di vincere “solo” 2 o 3 a zero.
Il problema numero due dell’affaire Verdini ha a che fare con Matteo Salvini, ministro dei Trasporti nonché compagno, come si sa, di Francesca, figlia di Denis. Anche qui sarà bene ricompitare alcuni princìpi elementari: non esiste un “reato di fidanzamento”, la responsabilità penale è personale, e non si vede perché Salvini debba rispondere di fatti che per ora non solo non hanno generato un processo, ma che non riguardano né lui né alcun membro del governo (nessun ministro o sottosegretario risulta infatti indagato).
CIRCO MANETTARO - Se si avallasse un criterio diverso, e dunque se Salvini fosse ora trascinato in Parlamento a rispondere, si compirebbe un altro passo nella direzione di un circo mediatico sempre più fuori controllo. Ogni procura saprebbe che basterebbe aprire un’inchiesta e far circolare alcuni dettagli per indurre fibrillazioni e destabilizzazioni a danno di un governo. È questo che vogliamo?
Non siamo ancora soddisfatti di quanto è già accaduto – in questo senso – dal 1994 a oggi? Ricominciamo con l’uso politico della giustizia? Anzi, addirittura ne anticipiamo gli effetti nel tempo, facendo partire la stagione di caccia contro un governo prim’ancora che un suo membro abbia ricevuto lo straccio di un avviso di garanzia? Se è così, dobbiamo esserci distratti, e qualcuno – nel silenzio delle più alte istituzioni della Repubblica – deve già aver cassato e sbianchettato le norme costituzionali che sanciscono la presunzione di innocenza di ogni cittadino fino al terzo grado di giudizio.
Il terzo e ultimo problema di questa faccenda riguarda direttamente Denis Verdini. Credo di sapere due o tre cose su di lui. È una persona migliore, umanamente e politicamente, della cattiva e talora ingiusta letteratura che lo accompagna. È uomo di buone spesso ottime - letture, e di solida cultura politica e storica. E soprattutto è un tipo che preferisce dare uno schiaffo davanti e non una pugnalata alle spalle, e ciò lo pone su un livello indubbiamente superiore rispetto al grosso dell’attuale ceto politico-istituzionale.
Con ciò, non intendo candidarlo al Nobel per la Pace, né farne una specie di versione toscana di Madre Teresa di Calcutta. Però un elementare senso di verità e correttezza mi impone di segnalare un curioso doppio standard. Siamo in un paese dove esistono santuari intoccabili, dove alcune personalità – proprio come salamandre – hanno attraversato indenni ogni tipo di fuoco. E però esistono anche bersagli ideali, soggetti liberamente massacrabili: Denis Verdini è stato inserito da molto tempo in questa seconda categoria.
BERSAGLIO “IDEALE” - Pensateci. È stato infilzato per vicende relative all’editoria: ma anche i bambini sanno che oggi, con la carta stampata, un editore può avere solo prospettive di perdita. È stato poi nuovamente infilzato per vicende bancarie: e può darsi che più di qualcosa non funzionasse nel suo istituto. Ma dubito del fatto che un solo istituto bancario, se sottoposto all’occhiuto e implacabile scrutinio a suo tempo praticato sulla banca verdiniana, ne sarebbe uscito senza contestazioni. La mia impressione è che il vecchio Denis sia stato e continui a essere il bersaglio ideale. La sua storia e il suo profilo “regalano” articoli pirotecnici e scintillanti. E soprattutto le inchieste contro di lui sono l’escamotage perfetto per tentare un’operazione di disarticolazione di partiti-maggioranze-governi. Andò così (forse non solo per l’ovvio interesse della sinistra) ai tempi dei governi Berlusconi. E c’è chi spera che il giochino possa ripetersi nel 2024, per interposto Salvini. $ bene descrivere l’operazione preventivamente.